Nell’anno 827 dopo Cristo, gli arabi sbarcarono a Mazara del Vallo e diedero inizio al dominio islamico sulla Sicilia.
La dominazione si concluse solo nell’anno 1091, dopo più di 250 anni dopo, con la caduta di Noto. Questa ha lasciato tracce indelebili nella cultura di tutta l’Isola, influendo il dialetto, l’architettura e l’urbanistica della città, nonché gli usi, i costumi e le tradizioni. Ma l’influenza araba sulla cucina siciliana è stata rivoluzionaria ed è grazie ad essa che questa può essere definita una delle più ricche e ricercate al mondo.
A differenza di quanto si possa pensare, infatti, gli anni della dominazione araba sono stati determinanti nella cucina tradizionale siciliana: sono stati anni in cui due culture hanno sperimentato una fusione unica e felice, che ha dato vita a una delle tradizioni culinarie più originali e uniche. Principalmente questo popolo ha fatto conoscere ai siciliani numerose spezie, prima sconosciute, nuovi ingredienti e pietanze.
Gli arabi hanno infatti importato nuove tecniche agricole e di pesca, ma anche colture, come quella del riso e della pasta, poi frutta: fichi d’India, bananeti, piante di zibibbo, albicocche, arance, limoni, cedri, mandarini. E ancora canna da zucchero, asparagi, finocchietto selvatico, pistacchi, mandorle, pinoli, sesamo e soprattutto l’utilizzo di differenti spezie, fra cui lo zafferano. Questi alimenti trovarono il loro ambiente ideale in Sicilia, entrando così nell’alimentazione delle persone del posto e con il tempo vennero integrati anche in ricette di dolci e non solo.
Uno dei piatti della cucina arabo sicula, particolarmente diffuso, soprattutto nel trapanese, è il Cous Cous: proprio in quella zona ogni donna custodisce gelosamente la sua ricetta “segreta”. La storia narra che, dall’Africa, il cous cous sia giunto in Sicilia a partire dalla dominazione araba e che si sia poi diffuso in maniera massiccia nell’Ottocento, quando i lavoratori delle zone trapanesi tra San Vito Lo Capo e Mazara del Vallo, iniziarono a recarsi nelle coste tunisine esportando cultura e tradizione.
Viene cucinato però con una variante tutta siciliana, a differenza di quello arabo, ovvero con il brodo di pesce al posto del brodo di montone, capretto o pollo che viene solitamente usato dagli arabi. Si tratta di un piatto molto particolare e gustoso che consiste di questo brodo che si versa sulle palline di semola di grano duro (il cous cous) “incocciate” con il movimento rotatorio delle dita all’interno della “mafaradda”, un particolare contenitore. Successivamente vengono cotte a vapore nella “Couscoussiera” o “keskas” in arabo, una pentola di metallo divisa in due parti: una inferiore allungata a forma bombata in cui si cuociono le verdure e la carne in umido (chiamata in arabo “berma”) ed una superiore che consiste in un recipiente dal fondo forato in cui il couscous si cuoce a vapore assorbendo i sapori del brodo sottostante.
Il procedimento non è di facile esecuzione, in quanto prevede tempi lunghi per la preparazione e alla fine si aggiungono vari tipi di spezie come la cannella, il curry, la paprika o la curcuma. Ne esistono tantissime versioni diverse in tutto il mondo, ma un’altra molto consumata in Sicilia è anche quella fredda chiamata “tabulè” che può essere preparata con largo anticipo.
Altro cibo di origine araba è incredibilmente sua maestà l’arancina, nella parte occidentale, arancino in quella orientale, è una palla di riso fritta, che sembra essere stata importata dagli arabi, che erano soliti appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo. L’invenzione della panatura, invece, viene spesso fatta risalire alla Corte di Federico II, un modo per conservarla e trasportarla nei viaggi e nelle battute di caccia. La panatura croccante, infatti, assicurava un’ottima conservazione del riso e del condimento, oltre ad una migliore trasportabilità.
Fu invece durante la dominazione musulmana che i Siciliani inventarono la pasta di grano duro, e le notizie ci arrivano da un geografo arabo, Al-Idrisi, che nel “Libro di Ruggero” del 1154 scrive: “A ponente di Termini vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole, ricco di acque perenni e mulini con una bela pianura e vasti poderi, nei quali si fabbricano i vermicelli in quantità tale da approviggionare oltre ai paesi della Calabria quelli dei territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi”. E’ questa testimonianza che dimostra come la pasta veniva prodotta in Sicilia molto tempo prima che Marco Polo la importasse dal suo viaggio in Oriente (come invece si crede in gran parte d’Italia).
Ma anche la famosa caponata deriva da un piatto tipico magrebino, una sorta di insalata di melanzane, pomodori e spezie chiamata “zaalouk”.
Ma è l’arte pasticciera siciliana a essere stata maggiormente contaminata dalla dominazione araba, a cominciare dalla sua regina, la cassata, rivestita di pasta di mandorle, ideata proprio dagli arabi che nel VI secolo mescolarono zucchero e mandorle macinate, dando così vita alla prima ricetta della pasta di mandorla (o pasta reale).
La cassata dunque nasce dall’unione delle due culture. Inizialmente infatti era una pastafrolla con farcitura di ricotta zuccherata di origine romana. In seguito gli arabi introdussero i canditi e la pasta di mandorle, trasformandola in quella che conosciamo noi oggi. Tra l’altro il suo nome deriva proprio dal contenitore a forma di ciotola in cui essa viene realizzata, in arabo “qas’at”, che sta per “ciotola” appunto. Gli Arabi poi insegnarono la ricetta alle suore dei conventi siciliani che la custodirono per secoli arrivando fino a noi oggi.
E parlando di ricotta pensiamo immediatamente a colui che tra tutti i dolci tipici siciliani antichi è il più famoso: il cannolo. Si dice che perfino le sue origini siano arabe. La leggenda narra infatti che l’inventrice del cannolo fu una donna, la favorita dell’emiro di Caltanissetta (Qal’at al Nissa). La donna amava preparare prelibatezze per il suo signore e, tra un esperimento e l’altro, inventò un guscio di pasta ripieno di ricotta, mandorle e miele. Le mandorle e il miele sono spariti, ma il principio è rimasto. A diverse ipotesi è legata invece l’origine del nome: per qualcuno deriva dalle canne di fiume che servivano per arrotolare la cialda. Per altri dall’arabo qanawat (“canali”). Ma già Marco Tullio Cicerone parla nel 70 d.c. di “tubus farinarius, dulcissimo, ex lacte factus”, “un tubo fatto di farina, dolcissimo, fatto con il latte.” Anche se, ad onor del vero, un’altra leggenda vorrebbe un’origine più nostrana per il cannolo. Secondo quest’ultima, furono infatti le monache di Caltanissetta a creare il friabile guscio ripieno di ricotta dolce.
Ci sono poi le sfince, delle frittelle da mangiare soprattutto nel periodo di Natale. L’impasto è a base di farina lavorata con lievito di birra e acqua, troppo morbido per essere impastato, va sbattuto con movimenti circolari di pugni e braccia e poi fritte nell’olio caldo. Una volta cotte vanno condite con zucchero e cannella ed hanno una consistenza spugnosa, da cui deriva il nome originale arabo: “esfang”, letteralmente “spugna”. Famose anche le sfince di San Giuseppe, mangiate dai siciliani il 19 Marzo in occasione della ricorrenza del santo, ma più grandi e ripiene di ricotta. Come si può notare il termine ha la stessa radice di un’altra specialità siciliana, lo sfincione, ovvero il pane pizza morbido e lievitato, simile appunto ad una spugna (da cui il nome) con sopra una salsa a base di pomodoro, cipolla, acciughe, origano e pezzetti del formaggio tipico siciliano chiamato caciocavallo.
L’abitudine di fare infusi con acqua e zucchero la portarono sempre in Sicilia gli arabi, con le prime coltivazioni di canna da zucchero e proprio questa è all’origine dello sharbat (dall’arabo “sorbetto”). E grazie alla loro introduzione degli agrumi si è trasformato nel sorbetto e nella granita, come li gustiamo noi oggi durante la calda estate siciliana.
Di origine araba è anche la Cubbaita, un dolce a base di miele e mandorle definito un “torrone siciliano”, ma in realtà è più simile a un croccante. Infatti, il nome dall’arabo “qubbiat” significa “mandorlato”, dall’ingrediente principale della versione originale. La cubbaita viene preparata con zucchero, miele e frutta secca. Si fanno cuocere i primi due ingredienti a fuoco lento, fino a ottenere un caramello dorato non troppo scuro. Vi si aggiungono le mandorle tostate e, nelle versioni moderne, nocciole e pistacchi. Si stende tutto su un ripiano ben unto, lo si taglia in strisce e si aspetta. Esiste anche una variante tipica della Sicilia Orientale, la giuggiulena, dall’arabo “giongiolan” che significa “sesamo”, ingrediente anch’esso portato dagli arabi. In questo caso alle mandorle vengono uniti i semi di sesamo e anche i ceci, qualche volta. Entrambi vengono quasi sempre gustati nelle feste locali e si possono acquistare quasi ovunque dai venditori ambulanti, specialmente nel periodo natalizio. A tal proposito vengono dall’arabo anche i “calia”, da “qala”, friggere, dei ceci abbrustoliti in uso anch’essi nelle feste popolari e venduti per strada.