A giugno del 1861 usciva dai torchi della tipografia di Filippo Barravecchia di Palermo, un opuscolo di una novantina di pagine, intitolato Le sette parole predicate il 6 aprile 1860 in Ficarra dal Sac. Pietro Gambino.
Praticamente sconosciuto, il libretto in questione è appunto una raccolta di sette «parole», ovvero sette discorsi, a tema sacro, delle predicazioni sostanzialmente, che don Pietro Gambino, gesuita e responsabile per il suo ordine della cura della pubblica istruzione, ebbe a pronunciare a Ficarra, è da presumere in Chiesa Madre. Le informazioni importanti le troviamo nella lettera, che apre l’opera, che l’autore indirizza «Agli abitanti della Ficarra comune nella provincia di Messina».
Scrive: “Signori, Ai 6 aprile 60 quando fui a predicarvi le parole dell’agonia, nessuno tra noi conosceva ancora quanto al 4 dello stesso mese erasi operato nell’eroica Palermo, e sebbene coi cuori aperti alla speranza, tuttavia duravano nella condizione di non potere impunemente né palesare, né udire la verità. Io ve la manifestai netta e pura, qual credo che derivi dal vangelo, e non avendo avuto timore di farlo, adempiva il precipuo dovere del mio ministero”. Da queste prime battute ricaviamo che il gesuita si era recato a Ficarra, la cui chiesa era all’epoca retta dall’Arciprete Pietro Miraglia, titolare dal 1837 al 1868, a predicare per la Settimana santa, in coincidenza dunque della ricorrenza della passione, morte e resurrezione di Gesù. Ma davvero interessante risulta il riferimento all’ignoranza dei fatti accaduti a Palermo due giorni prima della predica: un riferimento che, a guisa di fermo immagine, diventa oggi testimonianza diretta, immediata, di quell’episodio famosissimo del Risorgimento siciliano e celebrato come un vero e proprio mito civile, accaduto appunto il 4 aprile 1860 e noto come la Rivolta della Gancia.
Come ci racconta Buttà nella sua opera del 1882, il monastero francescano della Gancia era stato scelto come base della rivoluzione a compiersi, anche perché il maggior numero de’ frati di quel Convento erano della congiura. Nella notte tra il 3 e il 4 circa sessanta rivoltosi si introdussero nel convento per dare inizio all’insurrezione. Alle 5 del mattino ci fu il segnale, un forte scampanio anche per i gruppi armati appostati sulle montagne. Tuttavia la rivolta fu soffocata sul nascere: il capo della polizia regia Maniscalco, informato il giorno prima da un frate delatore, aveva fatto appostare i militari borbonici del sesto reggimento di linea nei pressi del convento. I soldati regi fecero 20 morti, tra cui un frate. Francesco Riso, ferito, morì in ospedale, mentre altri 13 uomini furono tratti in arresto. Sebbene fu una disfatta, questa insieme ad altre nei dintorni, fu una di quelle occasioni che prepararono il terreno, dopo un mese e poco più, per lo sbarco di Garibaldi a Marsala. Ad accogliere festante l’arrivo di Garibaldi un altro Miraglia ficarrese, Michele, importante medico dell’Ospedale Civico, già distintosi nei moti del ‘48, e che per l’occasione vestì felice la giubba rossa. Tornando a padre Gambino, qua e là si intravede tra le righe la sua tendenza ad avvicinarsi al popolo. Lo notiamo per esempio a pagina 26, dove ricorda che «in questa terra [di Ficarra, ndr] come nel resto della messinese provincia, è antica l’usanza delle mezzerie», che tenevano, continua, sotto scacco i contadini. Questa sua particolare attenzione sociale è riconosciuta anche in un breve ma efficace ritratto della sua figura che emerge in una piccola recensione al volumetto che apparve il 24 febbraio 1862 nel numero 75 (anno III) della Rivista italiana di scienze, lettere ed arti colle effemeridi della pubblica istruzione: “Sacerdote egli è, ma cittadino insieme, e dell’una e dell’altra dignità si vale a predicare la parola del cielo, che non contraddice al progresso e alla libertà; anzi ne è sostenitrice feconda”. C’è da dire, a proposito di libertà, che nonostante fosse un gesuita, padre Gambino, come leggiamo, propugnava idee unitarie, e lodava i ficarresi per la “compostezza politica” comunque tenuta in quel periodo di forte tensione: «Quindi non me ne lodo, li ricordo soltanto per darne onore a voi, che in onta al male facilissimo a provenirvene m’ispiravate tale fiducia, che non credendo sufficienti le grazie che in quella vi resi a voce, voglio ripetervele pubblicamente, e dedicarvi stampata la predica che udiste. Se accettate la riconoscente offerta con la civile compiacenza con che prestate attenzione alle mie parole, ho un motivo di più per essere contento che mi sono trovato più volte in mezzo a voi i quali serbando sin dal primo dì della comune riscossa religiosamente inalterati nella vostra terra l’ordine e la tranquillità, avete pruovato ch’io mal non mi apposi quando vi predicava come a popolo maturo di sostenere uno stato politico affatto opposto di quello in che allora eravate».
Come risulta dai Processi verbali della proclamazione e dell’accettazione del plebiscito italiano dei 21 ottobre 1860, a Ficarra ci furono “votanti cinquecento trentaquattro, tutti pel sì”. I ficarresi avevano dato così anche loro il proprio contributo per fare l’Italia unita, con Vittorio Emanuele re costituzionale, cogliendo a pieno il pugnace, struggente e accorato monito che padre Gambino rivolse loro in occasione del sesto discorso: “Anche noi abitanti dell’Italia meridionale siamo ossa spolpate, quindi anche noi accostiamoci alle ossa vicine, e questa alle altre vicine a loro, e tutti alle di già vivificate e il cadavere si leverà intiero, e i naturali d’Italia faremo una medesima nazione, avremo a re nostro un re solo, e non saremo più sette nazioni, non divisi più in sette regni” (pp. 65-66). Un messaggio che, a rileggerlo oggi, e pensarlo pronunciato solennemente a Ficarra il 6 aprile del 1860, fa certamente effetto.