L’inchiesta che ha portato all’arresto del costruttore mafioso Francesco Zummo e del commercialista Fabio Petruzzella, indagati per riciclaggio e autoriciclaggio, è frutto della collaborazione investigativa delle Dda di Palermo e Napoli e della Procura Anticorruzione albanese. Le Direzioni Distrettuali Antimafia di Napoli e Palermo hanno eseguito due distinti provvedimenti cautelari (rispettivamente, un decreto di fermo ed un’ordinanza di custodia cautelare) nell’ambito di due inchieste collegate su traffici illeciti internazionali.
In particolare, la Procura di Palermo, diretta da Francesco Lo Voi, ha eseguito i due arresti ritenendo che esistano gravi indizi in operazioni di riciclaggio e autoriciclaggio internazionale e di fraudolento trasferimento di valori, di grosse somme di denaro mafioso derivato dal ‘sacco di Palermo’ e dal traffico internazionale di stupefacenti conosciuto come pizza connection.
I pm hanno disposto anche il sequestro della somma di circa 20 milioni di euro, depositata in Albania, e il sequestro di prevenzione per circa 30 milioni di euro (in esecuzione di decreto emesso dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale), recuperando i beni sottratti all’esecuzione del decreto di confisca emesso nei confronti di Francesco Zummo.
Gli investigatori si sono imbattuti per la prima volta nel nome di Francesco Zummo, costruttore palermitano 89enne ritenuto socio del sindaco mafioso Vito Ciancimino e oggi finito ai domiciliari per riciclaggio, grazie a un appunto scoperto nella macchina di Michael Pozza, il “front man” della mafia canadese trovato ucciso nel ’79 a Toronto. Successivamente, in una rogatoria effettuata nell’ ambito dell’indagine ‘Pizza Connection’, coordinata da Giovanni Falcone all’inizio degli anni Ottanta, emerse che alcuni conti correnti di Zummo erano stati utilizzati per operazioni legate al traffico di stupefacenti denominato “Pizza connection”
. Dopo alterne vicende giudiziarie, una condanna a 5 anni in primo grado e poi una assoluzione in appello per mafia e favoreggiamento, al costruttore furono sequestrati appartamenti, ville, auto, conti correnti bancari in Italia, Canada e nelle Isole Vergini per 200 milioni di euro. Zummo era sospettato di avere occultato parte del tesoro dell’ex sindaco e ha accompagnato due volte in Canada i figli di Ciancimino, assistendoli nell’acquisto di immobili. Tra beni finiti sotto sequestro anche il cosiddetto fondo Pluto: un deposito in una banca svizzera di 12 milioni. Il tribunale sezione misure di prevenzione, però, non confiscò i beni e dispose per Zummo la sola misura di prevenzione personale per 5 anni. La sentenza venne confermata in appello.
Fu la Cassazione a bocciare il provvedimento e a disporre un nuovo appello che, nel 2020, invertì totalmente rotta e confiscò il tesoro del socio di don Vito. Undici aziende, centinaia di conti correnti e immobili costituiti da numerosi appartamenti, ville terreni e aziende agricole a Palermo e provincia e cinque complessi residenziali nella provincia di Siena. “A partire dalla fine degli anni Sessanta,- scrissero i giudici – Zummo, con il consuocero Vincenzo Piazza (ritenuto fedele consigliere della famiglia mafiosa di Palermo-Uditore) e con il defunto socio e suo fedele braccio destro Francesco Civello, fu tra i principali responsabili del sacco edilizio di Palermo, ordito da Vito Ciancimino, realizzando un impero edile di circa 2.700 immobili”.
L’imprenditore, nonostante fosse vicino alle famiglie mafiose della Noce prima e a quella dell’Uditore poi, ricoprì un ruolo trasversale rispetto alle vicende della guerra di mafia, che portarono vari boss ad alternarsi per conquistare un controllo egemone sulla città e la provincia. Fu prestanome e custode dei proventi del narcotraffico, oggetto dell’indagine Pizza Connection, riconducibili ai boss Gaetano Badalamenti e ai Gambino, a Leonardo Greco e Michelangelo Aiello e di quelli, sempre di provenienza illecita, di Fulvio Lima, nipote dell’eurodeputato ucciso dalla mafia Salvo Lima.
La protezione che Zummo poteva vantare, in cambio di tangenti ed appartamenti, a suo tempo attirò le attenzioni investigative dell’allora giudice Istruttore Giovanni Falcone, poi confermate dalle rivelazioni di numerosi collaboratori di giustizia e dal testimone Massimo Ciancimino, figlio di don Vito. Quando la Corte d’Appello di Palermo, nel 2020, ribaltando i precedenti verdetti, confiscò il patrimonio del costruttore, mise nero su bianco che il patrimonio accumulato era il risultato dell’esercizio di una “vera e propria impresa mafiosa”.