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Gocce di anatomia: gli astrociti e la depressione, andiamo “al cuore” del sistema nervoso

martedì 16 Febbraio 2021

Cari Lettori,

questa settimana prendo spunto da un articolo del periodico “Le Scienze” (edizione italiana della nota rivista di divulgazione scientifica “Scientific American”) che riporta uno studio effettuato da ricercatori della McGill University – rinomata università canadese, con sede a Montreal – i quali, basandosi sull’osservazione istologica di cervelli prelevati post-mortem da soggetti affetti da grave depressione e morti suicidi, hanno fatto un’osservazione originale e per alcuni versi sorprendente: queste persone, in alcune regioni del cervello, hanno un numero inferiore alla norma di astrociti, cellule del sistema nervoso appartenenti alla famiglia delle cellule gliali, alla cui esistenza abbiamo già accennato in un’altra puntata di questa rubrica (clicca qui per leggerla).

Riparafrasando quanto già scritto nella precedente puntata, le cellule gliali (un tempo ritenuto un ammasso informe di sostanze “collose” – da cui glia – che tenevano uniti i neuroni) sono un importantissimo contingente strutturale del nostro sistema nervoso e rappresentano una popolazione cellulare circa dieci volte più numerosa rispetto ai più “blasonati” neuroni e funzionalmente non meno importanti, anzi potremmo dire “essenziali” per la sopravvivenza – e quindi il funzionamento – di essi.

Non ripeterò la classificazione delle cellule gliali, ma spenderò qualche parola su queste cellule la cui forma “stellata” ne ha determinato il nome, cercando di motivare perché, nelle mie lezioni, spesso mi capita di paragonarle alle “baby-sitter” dei neuroni, in quanto li “imboccano” e “gli cambiano anche il pannolino”.

Tra le varie funzioni di queste cellule, ce n’è una che le caratterizza in particolare: esse determinano la formazione della “barriera emato-encefalica”, una sorta di muro tra sangue e tessuto nervoso che, a dispetto del nome, non è presente solo a livello dell’encefalo ma anche del midollo spinale (e quindi dell’intero nevrasse). Per spiegare cosa sia questa barriera, devo brevemente aprire una parentesi sui vasi ematici, le strutture del nostro corpo nelle quali scorre il sangue.

Di vasi ematici ne abbiamo fondamentalmente tre tipologie: quelli arteriosi, i capillari e quelli venosi. I primi e gli ultimi trasportano il sangue che – rispettivamente – si sta allontanando da, o sta ritornando verso, il cuore, il motore propulsore della massa ematica. Nel mezzo, come detto, ci stanno i capillari (da capillus, capello, a indicarne la sottigliezza e la flessibilità della loro struttura) che sono i canali di scambio, costituiti da un sottile strato di cellule endoteliali – che li rivestono come le piastrelle nella parete del bagno – e poco altro. Dai capillari, le sostante nutrienti escono per raggiungere le cellule, e le sostanze di scarto prodotte da queste ultime vi si riversano per viaggiare verso gli organi preposti alla loro eliminazione dal nostro corpo (quali – principalmente – i polmoni, i reni, il fegato e la cute).

Per far ciò, queste sostanze attraversano uno spazio virtuale, detto interstizio, del quale abbiamo già parlato in un’altra puntata (clicca qui per leggerla) nella quale abbiamo anche spiegato che per ragioni funzionali, il sistema nervoso non può che essere privo di interstizio, e che questo spazio virtuale qui è occupato proprio dagli astrociti. Pertanto, sia tutte le sostanze nutritizie che devono raggiungere i neuroni, sia tutte le sostanze cataboliche prodotte da questi ultimi e che devono viaggiare verso il sangue, sono veicolate e indirizzate nella giusta direzione dagli astrociti, e – al contempo – altre sostanze potenzialmente dannose per i neuroni vengono bloccate da questa barriera.

Rispetto a quanto detto nelle altre puntate, qui vorrei aggiungere un dettaglio di non poca importanza: la barriera emato-encefalica, da un punto di vista strettamente morfologico, è costituita dalle strette giunzioni intercellulari (tight junctions, vedi figura) che sono presenti tra le cellule endoteliali dei capillari del sistema nervoso. Ad indurre la formazione di queste giunzioni sono proprio gli astrociti! Se queste cellule endoteliali si mettono in coltura – in laboratorio – senza gli astrociti, le giunzioni non si formano così come se si mettono in coltura cellule endoteliali prese da altri distretti anatomici assieme agli astrociti, le prime inizieranno a formare queste strette giunzioni.

Torniamo adesso allo studio che abbiamo citato all’inizio dell’articolo: gli autori hanno dimostrato che in varie regioni del cervello (incluse alcune del sistema limbico, di cui abbiamo detto qui vi era un numero di astrociti ridotto rispetto alla norma, sebbene le loro caratteristiche istologiche individuali non mostrassero differenze significative rispetto ai soggetti “normali”.

Questa osservazione è molto interessante in quanto è possibile ipotizzare che i neuroni di queste aree con pochi astrociti siano esposti ad uno stress tossico/metabolico che li porti ad uno stato di sofferenza cellulare cronica la quale – clinicamente – si estrinsecherebbe col corteo di segni e sintomi tipici della malattia depressiva. Infine, se confermati, questi risultati potranno aprire innovative prospettive terapeutiche, quali la sintesi e la sperimentazione di farmaci in grado di contrastare la perdita di astrociti.

Ancora una volta, studi morfologici – su tessuti e organi prelevati post-mortem – rivelano aspetti sconosciuti e forniscono indizi importanti sulla patogenesi delle malattie umane.

(Nota: l’immagine riprodotta è stata presa e modificata dal volume “Atlante di neuroscienze di Netter”, terza edizione italiana a cura di Francesco Cappello et al., Casa Editrice EDRA, 2017, Milano. Si ringrazia l’Editore)

 

Di Francesco Cappello

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