Un’operazione antimafia contro il clan Cappello-Cintorino è in corso nelle province di Catania e Messina con l’esecuzione di due ordinanze cautelari emesse nei confronti di 39 persone indagate, due ordinanze di custodia cautelare in carcere per 39 indagati, 30 in carcere e nove agli arresti domiciliari, a vario titolo, per associazione mafiosa, narcotraffico, spaccio di stupefacenti, estorsione, rapina, accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti, e trasferimento fraudolento di valori. I provvedimenti sono stati eseguiti da carabinieri del comando provinciale di Messina e da finanzieri dei comandi provinciali di Catania e della Città dello Stretto.
Le due ordinanze sono il risultato dello stretto coordinamento investigativo attuato tra le Procure di Catania e di Messina, con la supervisione della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, per “monitorare più efficacemente le persistenti attività, anche di sfruttamento economico del territorio, proprie dei citati clan per effetto delle cointeressenze nei territori di confine delle due province“.
Il provvedimento a Catania è stato emesso dal gip Simona Ragazzi su richiesta del procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e dei sostituti Assunta Musella e Alessandro Sorrentinti. L’ordinanza di Messina è stata firmata dal gip Ornella Pastore, su richiesta della procuratrice aggiunta Rosa Raffa e dei sostituti Liliana Todaro, Antonella Fradà, Fabrizio Monaco e Francesco Massara.
Particolari sull’operazione saranno forniti durante una conferenza stampa che si terrà alle 10:30, al Palazzo di Giustizia di Messina.
Tra i destinatari del provvedimento esponenti dei clan Cintorino-Cappello e Santapaola-Brunetto che, secondo l’accusa, tra il 2020 e il 2022, avrebbero gestito un fiorente traffico di sostanze stupefacenti rifornendo di droga l’intera area ionica del Messinese, anche attraverso anche la “mediazione” di alcuni personaggi di rilievo che avevano una base operativa tra Giardini Naxos e Taormina, due delle maggiori località turistiche della Sicilia. Per il traffico di droga venivano utilizzati un linguaggio in codice, telefoni dedicati e applicazioni di messaggistica non intercettabili con le comuni tecniche.
Durante le indagini, delegate dalle Dda etnea alle Fiamme gialle del nucleo Pef di Catania, sarebbero, inoltre, stati monitorati diversi episodi di approvvigionamento e di cessione di narcotico, che hanno portato , complessivamente, all’arresto in flagranza di cinque indagati e al sequestro di circa 13 chilogrammi di cocaina, 55 chilogrammi di hashish e di 72 chilogrammi di marijuana. Significativo è risultato il ritrovamento di una grande parte della droga sequestrata nel cimitero di Giarre (Catania), che è risultato essere una delle basi operative e di deposito del gruppo criminale.
Le inchieste, coordinate dai procuratori di Catania, Francesco Curcio, e di Messina, Antonio D’Amato, e coordinata dalla Dna, ha fatto emergere anche un vasto giro di estorsioni.
Riccardo Pedicone, braccio destro del boss Mario Pace, sarebbe stato il referente della cosca sul versante Ionico della Sicilia, e in particolare a Giardini Naxos.
E nel suo ruolo, in occasione delle consultazioni regionali del settembre 2022 sarebbe “adoperato per supportare la campagna elettorale di un candidato catanese per l’Assemblea Regionale Siciliana“. Ma, spiegano i magistrati, dalle “risultanze investigative sulla ricerca del sostegno elettorale, seppur non abbiano consentito di configurare a livello di gravità indiziaria il patto idoneo ad integrare il reato di scambio elettorale politico mafioso, avrebbero consentito, comunque, di acquisire ulteriori elementi indiziari in ordine al riconoscimento mafioso della figura di Pedicone, in quanto sodale influente ed in grado di assicurare l’appoggio elettorale anche in occasione di elezioni di livello regionale“.
Tra i personaggi ‘emergenti’ sono citati Alessandro Galasso, Diego Mavilla, uomo di fiducia di Pedicone, Christopher Filippo Cintorino, nipote dello storico boss Antonino, che si “sarebbe imposto sul territorio, soprattutto nel settore degli stupefacenti” gestendo “un mercato operativo a ‘ciclo continuo’ di cocaina, hashish e marijuana” grazie a una diffusa rete di spacciatori. La droga veniva chiamata in modo criptico, parlandone come di attività legate a un allevamento di cani o come una nota bevanda gassata, e utilizzando telefoni dedicati e applicazioni di messaggistica non intercettabili con le comuni tecniche per tentare eludere le indagini.
Dalle indagini, sottolinea la Procura di Catania, supportate da accertamenti della Guardia di finanza etnea, sarebbe emerso che il gruppo Cintorino avrebbe attuato un ramificato controllo del territorio, anche attraverso una metodica attività estorsiva nel comprensorio di Calatabiano (Catania) e nei comuni limitrofi della fascia ionica etnea e messinese a danno di operatori economici dell’edilizia, dei trasporti e di attività turistico-ricettive. “Il significativo riscontro della forza d’intimidazione territoriale del clan – scrive la Dda – si desumerebbe inoltre dalle richieste di intervento rivolte al reggente del sodalizio Mariano Spinella Mariano, per dirimere controversie insorte tra sodali e tra questi ultimi e soggetti esterni all’organizzazione per le questioni più varie, da quelle di carattere economico a quelle sentimentali“.
Le indagini tecniche delegate dalle Dda ai finanzieri etnei avrebbero poi restituito gravi indizi in merito al fiorente business criminale del traffico di stupefacenti, nonostante le cautele adottate dagli indagati, volte a dissimulare l’attività realmente svolta per non attrarre le forze dell’ordine.
Proprio dalle intercettazioni delegate dalle Dda ai carabinieri emergeva come dai vertici del clan Cappello di Catania fosse stata imposta la presenza di Pedicone ai Giardini Naxos che, secondo il linguaggio criptico utilizzato dagli indagati, “avrebbe dovuto ‘giocare’ in quel ‘paese’ con i ‘bambini’, espressione quest’ultima che gli investigatori ritengono sia stata adoperata per indicare i sottoposti nell’ambito del gruppo criminale“.
Nel ragionare sulle dinamiche interne alla consorteria, gli indagati si sarebbero definiti ‘tutti una cosa’, espressione che rafforzava il vincolo associativo.
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