Disabilità e povertà, due parole che raramente vengono affrontate insieme nel dibattito pubblico italiano, eppure rappresentano un nodo strutturale che condiziona la vita di centinaia di migliaia di famiglie. Prendendo a modello il 1° Rapporto CBM Italia – Fondazione Zancan che ha scelto di rompere il silenzio, nel 2024 ha presentato una delle prime indagini sistematiche e dettagliate sul legame tra condizione di disabilità e impoverimento nel nostro Paese.
Un’analisi fondata su un doppio approccio: quantitativo, tramite questionari somministrati a quasi 300 famiglie, e qualitativo, con interviste in profondità a 57 di esse. Lo studio ha restituito un quadro netto: chi vive con una disabilità in famiglia è più esposto al rischio di esclusione sociale, non solo per limiti economici, ma per mancanza di accesso a servizi, relazioni, opportunità. Una povertà che è anzitutto multidimensionale.
La disabilità, sottolinea il rapporto, non è una condizione esclusivamente sanitaria. È l’effetto di un’interazione tra fattori individuali, ambientali e sociali. E quando questi fattori si sommano in territori fragili, come molte aree del Sud Italia e delle Isole, il rischio di marginalità si trasforma in realtà quotidiana.
Sicilia: terra di disuguaglianze profonde
Il cuore del rapporto si concentra anche e soprattutto in Sicilia e consente di tracciare alcune “dinamiche chiave”. Tra i territori coinvolti nello studio ci sono infatti numerose realtà dell’Isola: da Ragusa a Modica, da Catania a Piazza Armerina, da Floridia a Pachino, dove associazioni come Anffas, ABA Community, Talità Kum, Agape, Diversabili Padre Pio e Piccoli Fratelli hanno raccolto testimonianze, facilitato il contatto con le famiglie, partecipato attivamente all’indagine.
I dati raccolti confermano un quadro allarmante. Nelle Isole italiane, la percentuale di popolazione con disabilità gravi sotto i 65 anni è la più alta d’Italia: 3,1%, un punto percentuale in più rispetto al Nord-Ovest. Un dato che da solo dovrebbe bastare a mobilitare politiche dedicate.
Il report evidenzia inoltre che oltre il 73% delle persone con disabilità (gravi o meno) in Italia vive in famiglie che dichiarano di avere difficoltà economiche ad arrivare a fine mese. In Sicilia, tale soglia viene probabilmente superata, anche se mancano dati disaggregati precisi. Tuttavia, il racconto diretto delle famiglie colma il vuoto dei numeri: isolamento istituzionale, carenza di servizi domiciliari, difficoltà di accesso al collocamento mirato, mancanza di centri diurni e progetti per il “dopo di noi” emergono con forza in ogni intervista all’interno del rapporto.
Le organizzazioni del terzo settore rappresentano spesso l’unico punto di riferimento, ma denunciano una crisi di risorse e una gestione frammentaria da parte delle amministrazioni. Le famiglie siciliane coinvolte parlano di assenza di progettualità pubblica e di una solitudine educativa e assistenziale che investe non solo la persona con disabilità, ma l’intero nucleo familiare. Un altro aspetto rilevante è la marginalità geografica: molte delle famiglie risiedono in aree interne o rurali dove i trasporti sono limitati, i servizi distanti, l’accesso all’informazione quasi nullo. In queste condizioni, la disabilità si trasforma in condanna sociale. Non solo mancano gli strumenti per superare le barriere, ma anche quelli per immaginare una vita diversa.
Eppure, proprio da queste terre arrivano esempi di resilienza comunitaria. Le famiglie non chiedono assistenzialismo, ma dignità, ascolto e strumenti per autodeterminarsi.
Numeri e volti della disabilità in Italia
In Italia, secondo i dati Istat riferiti al 2023, tre milioni di persone dichiarano gravi limitazioni nello svolgimento delle attività quotidiane, pari al 5% della popolazione. Di queste, il 37% ha meno di 65 anni. Tuttavia, il quadro statistico è parziale e lacunoso: manca ancora un registro nazionale sulla disabilità, promesso ma non ancora operativo.
Le definizioni stesse sono stratificate e poco coerenti: l’Italia distingue tra invalidità civile, stato di handicap (L. 104/92), collocamento mirato (L. 68/99) e l’indicatore GALI usato a livello europeo.
Questa frammentazione impedisce una lettura unitaria del fenomeno e complica l’accesso ai diritti. Il report denuncia come il sistema italiano sia ancora ancorato a un modello “medico-legale”, che valuta la disabilità in base alla patologia, anziché seguire l’approccio “bio-psico-sociale” dell’OMS e della Convenzione ONU. Questo ritardo culturale si riflette nei servizi, nei percorsi scolastici, nel mondo del lavoro e nei diritti civili.
La povertà che non si vede
Nel 2022, oltre 5,6 milioni di persone vivevano in povertà assoluta in Italia (9,7%), e 2,18 milioni di famiglie non erano in grado di permettersi i beni essenziali. Ma la povertà non è solo questione di reddito.
Oggi si parla sempre più di povertà multidimensionale, come fa anche il Multidimensional Poverty Index (MPI): salute, istruzione, accesso ai servizi, abitazione, relazioni sociali.
L’indice europeo di “grave deprivazione materiale e sociale” considera ben 13 segnali diversi, da cui emerge che un italiano su quattro vive in condizioni di disagio. Le persone con disabilità, secondo il report, sono molto più esposte a questo tipo di deprivazione: costi aggiuntivi, assenza di trasporti accessibili, difficoltà nell’accesso alla scuola o al lavoro, isolamento sociale. La povertà si radica in ogni aspetto della vita e si trasmette anche ai caregiver.
Il circolo vizioso tra disabilità e povertà: voci e bisogni delle famiglie
La disabilità può essere causa e conseguenza della povertà. Chi nasce in un contesto povero ha meno possibilità di accedere a cure precoci o riabilitazione. Chi convive con una disabilità, propria o di un familiare, affronta maggiori spese e minori opportunità lavorative.
Il report chiarisce che le famiglie con persone con disabilità sono più esposte al rischio di cadere in povertà, a causa di tre fattori:
● Spese extra per ausili, terapie, adattamenti dell’abitazione, trasporti;
● Rinuncia al lavoro da parte di uno dei familiari (spesso donne), per svolgere attività di cura;
● Isolamento sistemico, cioè mancanza di supporto, informazioni, servizi di prossimità.
Tutto ciò si traduce in un abbassamento del tenore di vita complessivo del nucleo, e spesso in sofferenza psicologica e relazionale. Il report cita anche la mancanza di tempo per sé, la difficoltà a coltivare relazioni o semplicemente uscire di casa.
La ricerca ha individuato un punto centrale: è l’ascolto delle persone. Il 90% delle famiglie coinvolte dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. Ma il disagio non è solo economico: si avverte una distanza crescente tra bisogni e risposte istituzionali. Le famiglie chiedono un sistema meno standardizzato e più personalizzato, in grado di leggere i contesti.
La richiesta principale non è l’aumento di sussidi, ma la possibilità di partecipare: lavorare, educarsi, avere tempo libero, essere cittadini.
Le reti informali (nonni, amici, volontari) diventano spesso l’unico ammortizzatore sociale. Ma non possono sostituire uno Stato. Le famiglie vogliono essere ascoltate non come utenti, ma come soggetti attivi, capaci di contribuire con esperienza e proposte.
Costruire un futuro più giusto: la responsabilità collettiva
Il rapporto individua alcune strade concrete per spezzare il legame tra disabilità e povertà. La prima passa dalla necessità di superare le barriere, non solo architettoniche ma anche culturali, che isolano le persone e le famiglie.
È poi fondamentale investire in servizi capaci di valorizzare l’umanità e non soltanto di erogare prestazioni standard. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere il potenziale delle persone con disabilità, valorizzando capacità e competenze spesso invisibili. Infine, creare opportunità di lavoro e inclusione attiva diventa decisivo per restituire dignità e autonomia, rompendo il circolo dell’assistenzialismo.
Il report CBM-Fondazione Zancan rappresenta uno spunto importante nel modo in cui si affronta in Italia la questione della disabilità, spostando il focus da una visione emergenziale e settoriale a un approccio integrato e sistemico. Emergono con chiarezza le lacune del nostro sistema, privo di un’adeguata capacità di leggere la complessità del legame tra disabilità e impoverimento.
L’assenza di un’anagrafe nazionale, la frammentazione delle competenze e l’incapacità di intercettare i bisogni reali contribuiscono a perpetuare condizioni di svantaggio. Particolarmente significativa è la situazione della Sicilia, dove la fragilità territoriale amplifica quella sociale.
Le famiglie non chiedono solo sostegni economici, ma relazioni autentiche con le istituzioni, percorsi di inclusione, spazi di autodeterminazione. In molte testimonianze raccolte emerge la consapevolezza che senza una trasformazione culturale prima ancora che normativa, la disabilità continuerà a essere letta come un ostacolo, e non come una condizione su cui costruire diritti.
Servono politiche che ascoltino, coinvolgano e valorizzino. Politiche che partano dal territorio, dalle esperienze vissute, e restituiscano alle famiglie una centralità oggi troppo spesso negata. Solo così sarà possibile costruire un Paese in cui nessuno sia lasciato indietro.