Il 2 luglio 2025, nelle Commissioni riunite Giustizia e Sanità del Senato, è stato approvato il testo base del nuovo disegno di legge sul suicidio medicalmente assistito, che ora prosegue l’esame in sede referente. Una proposta che nasce con l’intento di dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale n. 242 del 2019, ma che secondo molti rischia di negare, più che garantire, i diritti delle persone gravemente malate.
Tra le voci più autorevoli che esprimono preoccupazione c’è quella di Giorgio Trizzino, medico e fondatore della Samot, già deputato, primo firmatario della proposta di legge C. 3101, depositata alla Camera il 10 maggio 2021, intitolata “Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita”.
“Questa proposta non è una legge di libertà. È un testo che impone vincoli, che subordina un diritto fondamentale a una serie di condizioni difficilmente accessibili. Invece di semplificare la strada al malato che chiede di porre fine alla propria sofferenza, la complica fino a renderla impraticabile”, denuncia Trizzino.
Le novità del disegno di legge 2025
Il testo, che interviene sia sul Codice penale che sulle leggi sanitarie, si propone di regolamentare l’aiuto al suicidio depenalizzandolo in casi specifici, come richiesto dalla Consulta.
Viene introdotto il comma 2-bis all’articolo 580 del Codice penale, che esclude la punibilità per chi agevola la morte volontaria di una persona se:
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è maggiorenne e capace di intendere e volere;
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è affetta da patologia irreversibile e da sofferenze intollerabili;
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è dipendente da trattamenti di sostegno vitale;
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è inserita in un percorso di cure palliative;
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è valutata da un Comitato Nazionale di Valutazione composto da sette esperti.
Il Comitato deve pronunciarsi entro 60 giorni, ma il suo parere non è vincolante: la decisione finale spetta comunque all’autorità giudiziaria. Resta un punto critico: le procedure attuative del suicidio assistito non saranno coperte dal Servizio Sanitario Nazionale. In sostanza, chi chiederà di morire dovrà farlo a proprie spese.
La legge, inoltre, rafforza il capitolo delle cure palliative, imponendo alle Regioni l’obbligo di usare tutti i fondi assegnati, sotto il controllo di Agenas. In caso di mancata attuazione, è previsto il commissariamento. L’intento dichiarato è quello di assicurare un accesso uniforme alle cure su tutto il territorio nazionale.
Un diritto condizionato
“Ci sono dolori che nessuna morfina può lenire: il dolore dell’anima, della solitudine, del non senso. Quando una persona chiede di morire, dobbiamo chiederci se abbiamo fatto tutto il possibile per ascoltarla, non se possiamo obbligarla a un percorso che non vuole”.
Trizzino avverte con chiarezza i rischi del disegno di legge: il testo, nato per garantire un diritto, finisce per svuotarlo di significato. “A parole si riconosce la libertà di scegliere. Ma nei fatti la si rende inaccessibile. È un paradosso. La Consulta ha tracciato una via chiara, ma questa norma sembra fatta per rallentare, non per accompagnare”.
Il punto più critico, secondo il medico palliativista, è l’obbligo di inserimento nelle cure palliative. “Le pratico ogni giorno, ma non possono diventare un vincolo. Nessuna legge può imporre un trattamento sanitario non desiderato. La Costituzione e la legge 219 lo vietano chiaramente. Qui invece si impone una scelta camuffata da tutela”.
Il diritto all’autodeterminazione, ribadisce, viene soffocato dietro una presunta salvaguardia sanitaria. “Le cure palliative sono fondamentali, ma non sempre risolvono ogni tipo di sofferenza. Il nostro dovere non è forzare il malato in un percorso prestabilito, ma riconoscere la sua libertà quando ogni altra strada è stata percorsa”, sottolinea.
Il caso Oppelli e l’illusione di un diritto

L’esempio concreto di una legge “bella in teoria, inapplicabile nella pratica” è, per Trizzino, quello di Martina Oppelli, la donna affetta da SLA costretta a recarsi in Svizzera per poter accedere al suicidio assistito, dopo che in Italia le era stato negato il riconoscimento dei requisiti previsti dalla Consulta.
“Martina Oppelli aveva tutte le condizioni previste dalla Corte costituzionale: una malattia irreversibile, sofferenze insostenibili, dipendenza da un supporto vitale. Eppure, le è stato negato l’accesso al suicidio assistito. È dovuta andare in Svizzera, tra dolori atroci e con mezzi propri, per ottenere ciò che lo Stato italiano avrebbe dovuto garantirle”.
Trizzino usa il suo caso per denunciare la distanza tra i principi e la realtà, tra il diritto riconosciuto e quello realmente accessibile. “Non si può continuare a ignorare le persone che chiedono solo di poter scegliere. La storia di Martina non è un’eccezione, è un campanello d’allarme. Questa è la realtà dei fatti, non l’astrazione dei codici”.
Il medico avverte che la proposta di legge oggi in discussione rischia non solo di non colmare il vuoto normativo, ma di istituzionalizzare una disuguaglianza profonda. “Se si esclude il Servizio Sanitario Nazionale dalle procedure attuative, si crea una discriminazione inaccettabile. Chi ha i soldi potrà accedere a un diritto, chi non li ha sarà costretto a soffrire. È inaccettabile che la possibilità di porre fine a una sofferenza insopportabile diventi un privilegio per pochi”.
E conclude con amarezza: “Una legge che pretende di essere giusta non può permettere che un cittadino, pur avendo tutti i requisiti riconosciuti dalla Consulta, sia costretto ad attraversare l’Europa per morire con dignità”.
Sicilia al palo, Toscana avanti
Mentre la proposta nazionale sul suicidio medicalmente assistito alimenta divisioni, le Regioni italiane procedono in modo disomogeneo. La Toscana rappresenta oggi l’unico esempio compiuto: ha approvato una legge regionale operativa, che consente di attuare concretamente le indicazioni della Corte costituzionale. I pazienti che possiedono i requisiti previsti possono accedere a un percorso chiaro, gratuito e sorvegliato da una commissione multidisciplinare. In Toscana, il diritto è già realtà.
Altrove, invece, il quadro è frammentario. Alcune Regioni, come l’Emilia-Romagna e la Puglia, hanno adottato delibere tecniche o affidato la valutazione dei casi a comitati etici locali, senza però trasformare queste scelte in leggi strutturate. In molte altre, le proposte sono rimaste ferme nei cassetti delle commissioni consiliari o si sono arenate per assenza di volontà politica.

E in Sicilia? Il tema è stato formalmente incardinato in Commissione Salute, ma dove tutto si è arrestato prima di diventare azione concreta. Nessuna legge, nessun protocollo, nessun percorso definito. Solo discussioni iniziali, mai sfociate in un atto che dia risposte ai cittadini.
“Siamo ancora fermi alla teoria – afferma –. Si discute, si rinvia, si rimanda. Ma intanto chi soffre resta senza tutele. Altre regioni hanno già dato attuazione concreta al diritto riconosciuto dalla Consulta. Qui, invece, la politica si limita a prendere tempo”.
L’assenza di una normativa regionale, denuncia, si traduce in una profonda disuguaglianza tra cittadini: “Non è tollerabile che un diritto così delicato venga riconosciuto solo a chi nasce nel posto giusto. Se vivi in Toscana puoi essere accompagnato, se vivi in Sicilia devi sperare o andartene all’estero. È una violenza silenziosa, ma reale”.
“Certo, dobbiamo rafforzare le cure palliative, ma non possiamo usarle come scudo per rimandare una scelta di civiltà – aggiunge -. Rispettare la volontà di chi, in condizioni estreme, chiede di porre fine alle proprie sofferenze non è una resa. È un atto di umanità. La politica regionale deve assumersi la responsabilità di legiferare, non restare spettatrice”.
Il futuro?
L’ex parlamentare non nasconde le difficoltà, ma resta convinto che il cambiamento sia inevitabile. “Il Parlamento ha il dovere di dare risposte. Ma non servono leggi ideologiche. Serve una legge laica, equilibrata, centrata sulla persona. Una legge che non imponga, ma accompagni. E soprattutto, che ascolti”.
“Non possiamo più permetterci di voltare lo sguardo. L’80% degli italiani vuole una legge sul fine vita. Non possiamo lasciare che a decidere siano la burocrazia, le paure o le ideologie – conclude -. Dobbiamo avere il coraggio di dire che ogni vita è importante, anche quando decide che è arrivato il momento di concludere il proprio viaggio con dignità”.