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Le problematiche

Zone rosse a Palermo: un’ordinanza che fa tanto rumore ma cammina sul filo dell’incostituzionalità?

sabato 25 Ottobre 2025

Le luci della Vucciria, di via Maqueda e del Teatro Massimo di Palermo hanno brillato nel primo weekend sotto il nuovo ordine prefettizio con un divieto di stazionamento per tre mesi per chi abbia precedenti o segnalazioni per reati come droga, risse, lesioni, furti, rapine, danneggiamenti o porto abusivo di armi. 
Un’ordinanza firmata dal prefetto Massimo Mariani, sulla base delle determinazioni del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, vuole “inibire la presenza di persone già denunciate per attività illegali e violente” e restituire ai cittadini una “fruizione pacifica” delle aree più turbolente della movida. A pochi giorni dal suo varo, però, la misura ha già sollevato più dubbi che consensi, sia sull’efficacia di tale norma che sulla sua natura. Dietro la facciata della fermezza istituzionale, si intravedono infatti crepe giuridiche difficili da ignorare.

Una “zona rossa” senza legge

La prima domanda è di diritto. Può un prefetto limitare la libertà di circolazione dei cittadini con un’ordinanza amministrativa? L’articolo 16 della Costituzione parla chiaro affermando che le restrizioni alla libertà di movimento sono possibili solo per motivi di sanità o di sicurezza e in base alla legge. Non basta, quindi, un atto amministrativo. Eppure, è proprio su questa soglia che si muove il provvedimento prefettizio. L’ordinanza richiama infatti le norme del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) e dell’articolo 54 del Testo Unico degli Enti Locali, che consentono a prefetti e sindaci di adottare misure “contingibili e urgenti” per la tutela dell’ordine pubblico.

Si tratta però di strumenti pensati per situazioni eccezionali e temporanee, non per imporre divieti generali e preventivi a categorie di persone. In questo senso, il provvedimento si colloca in una zona grigia del diritto amministrativo, formalmente giustificato come atto di sicurezza, ma sostanzialmente fragile sul piano costituzionale, perché esercita un potere che va oltre i confini previsti dalla legge. La misura palermitana ricorda il DASPO urbano, introdotto con il decreto Minniti-Orlando del 2017, che consente al questore (non al prefetto) di vietare l’accesso a determinate aree in presenza di comportamenti reiterati e pericolosi. Ma il DASPO urbano è individuale, motivato e soggetto a convalida giudiziaria. L’ordinanza del prefetto, invece, è generale, collettiva e preventiva. Una differenza sostanziale, che potrebbe indebolirne la tenuta legale.

Presunzione di colpevolezza, principio di uguaglianza e giurisprudenza

Un altro nodo riguarda la presunzione di innocenza. La misura non si applica solo ai condannati, ma anche a chi è semplicemente denunciato o segnalato dalle forze dell’ordine. L’ordinanza estende inoltre il divieto anche a chi, pur non avendo precedenti, tenga nelle aree interessate atteggiamenti aggressivi, minacciosi o molesti, tali da creare “un pericolo concreto per la sicurezza pubblica”. In sostanza, l’ordinanza estende il divieto anche a chi non ha subito alcuna condanna, ma solo una denuncia o una segnalazione di polizia, trasformando un atto preventivo in una misura punitiva anticipata. Si tratta di un approccio che potrebbe rivelarsi incompatibile con l’articolo 27 della Costituzione, che sancisce che nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva.

Anche il principio di uguaglianza, sancito dall’articolo 3 della Costituzione, sembra vacillare. Il provvedimento colpisce una categoria di persone in modo automatico e senza alcuna valutazione individuale o possibilità di contraddittorio. Si tratta quindi di una misura che semplifica la complessità sociale e giuridica in un elenco di reati, basandosi sul presupposto che un singolo precedente possa rappresentare un indicatore di pericolosità.

La Cassazione penale, con la sentenza n. 23723/2025, ha chiarito che le misure di prevenzione come il DASPO urbano devono essere motivate e proporzionate, e che il giudice deve verificarne la necessità concreta. Anche la Corte Costituzionale (sentenza n. 47/2024) ha ritenuto legittimo il DASPO urbano solo se fondato su “condotte reiterate” e su un “pericolo attuale”. Un’ordinanza generalizzata, che applica un divieto indistinto per tre mesi, rischierebbe dunque di superare la soglia di legittimità riconosciuta dai giudici.

Sicurezza o scenografia politica?

Paolo Taormina

C’è poi l’aspetto politico e comunicativo, forse il più rivelatore. L’ordinanza arriva pochi giorni dopo il delitto di Paolo Taormina, 21 anni, ucciso davanti a decine di giovani a pochi passi dal Teatro Massimo di Palermo. Una tragedia che ha scosso l’opinione pubblica e messo sotto pressione istituzioni e amministrazione comunale. In questo contesto, la “stretta” del prefetto somiglia più a una risposta simbolica e immediata che a una strategia strutturale. Dietro la parvenza della fermezza, emerge infatti la consapevolezza della sua fragilità. Una norma concepita per “fare rumore”, per mostrare che “lo Stato c’è ed è presente”, anche se giuridicamente traballante.

Sul piano sostanziale resta infatti molto poco, non riducendo di fatto la violenza, non affrontando le cause sociali del disagio e di fatto non cambiando il volto di quartieri “difficili” che ad oggi continuano ad essere lasciati ai margini. Come già osservato da diversi detrattori, il rischio è che la criminalità si sposti semplicemente da una zona all’altra della città, lasciando intatti i problemi di fondo. L’ordinanza, valida per tre mesi, è destinata comunque a scadere e nessuno sa se verrà prorogata o lasciata cadere. Ma il suo effetto più evidente è forse quello di raccontare una città che rincorre l’emergenza senza affrontarla veramente alle sue radici.

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