L’altra sera, rientrando da un viaggio dal Nord Europa, area che frequento spesso per motivi di lavoro, mi sono imbattuto nella performance di Achille Lauro a Sanremo. A mio figlio (8 anni) la performance non è piaciuta, al punto che è andato a mettere il pigiama a metà canzone, invitandomi a fare altrettanto.
Io ho visto tutto lo spettacolo. Francamente non mi è dispiaciuta più di tanto, e non sono rimasto scandalizzato più di tanto. In sé niente di bello per la verità, né di nuovo. Mi ha ricordato un po’ quando gli artisti negli anni ’80 rompevano le chitarre emulando le chitarre distrutte negli anni Sessanta dai Who o da Jimi. Il gesto irriverente e simbolico diventava al massimo una citazione, quando non una semplice messa in scena. Quindi sinceramente non ho visto alcuna provocazione, e parimenti niente di significativo dal punto di vista artistico o stilistico. Non è questo il punto. Come ha commentato qualcuno, un cantante ha proposto una canzone così bella che tutti parlano del suo vestito.
Nell’epoca nella quale fare parlare di sé è un valore, Achille Lauro ha fatto bene la sua parte e a lui vanno i miei complimenti.
Venivo da un viaggio nel Nord-Est Europa dove mi occupo di promuovere prodotti italiani. Una parte del mondo nel quale l’italianità ha un grande valore ed un grande pregio. È associata alla bellezza e allo stile. Uno stile universalmente noto come stile italiano, che trova nei nostri stilisti, nella Ferrari, nel vino ed anche nella musica leggera italiana i suoi simboli incontrovertibili. In questi posti se sei cortese con una donna non esitano a definirti “italiano vero”, magari intonando i versi di Toto Cutugno. Siamo noti per Al bano, Celentano, Ramazzotti, Pausini e ovviamente per Pavarotti.
Sono mondi musicali molto lontani dalla musica che amo ed ascolto, e da sempre mi innervosisce l’idea che nell’immaginario di questa parte del mondo io possa essere rappresentato da Toto Cutugno con la chitarra in mano. Eppure questa immagine ha un grande valore economico, che, a differenza dei francesi che vendono per cioccolato ogni liquido marroncino da loro prodotto, noi non siamo sempre in grado di comprendere e monetizzare. L’Italia e l’italianità all’estero sono una icona importante e rappresentano tanto potenziale per le nostre imprese manifatturiere e, nel caso della Sicilia,per le imprese del comparto enogastronomico.
Il Festival di Sanremo fa parte di questa narrazione dell’Italia all’estero, va in Eurovisione, ed è molto seguito. In ragione di questo credo che abbia fatto molto male la sua parte il Festival, che ricordo esiste nella misura in cui c’è di mezzo la Rai, che è una televisione nazionale pubblica, e che dovrebbe avere finalità pubbliche. Chi pensa e dirige il festival dovrebbe avere una visione di medio e lungo periodo che vada oltre gli strabilianti risultati d share, che tanto fanno gongolare gli organizzatori. Perché la funzione del Festival, piaccia o non piaccia è così, fa parte della rappresentazione nel mondo che l’Italia fa di sé. E questa rappresentazione estera è affari, è economia.
Un sistema Paese che funziona e che sa pensare alla patrimonializzazione del suo valore userebbe una manifestazione come il Festival di Sanremo per alimentare e rafforzare quel posizionamento strategico che abbiamo nel mondo e che rende i nostri prodotti appetibili per il mercato. Se sei la Coca Cola e produci bibite gassate per un mercato giovanile non ti rappresenti con lo stile di un produttore di Whisky invecchiato, magari vorresti e ti piacerebbe, ma questo non ti aiuta nelle vendite. È insito nella logica del marketing:potenziare i tuoi punti di forza.
Da quel poco che ho visto, il Festival di Sanremo di quest’anno aiuta poco nella costruzione e nel rafforzamento del nostro posizionamento strategico nel mondo. Quindi fatto così è sbagliato. La performance in sé di Achille Lauro, che è stato molto bravo a sfruttare l’occasione per il suo personale business, semplicemente non avrebbe dovuto essere. Magari il Festival incasserà tanto di pubblicità, per pagare profumatamente i suoi conduttori ed i suoi dirigenti, ma non contribuisce in alcun modo al sistema Italia. Achille Lauro e la sua performance sarebbero stati perfetti per rafforzare il posizionamento del mercato francese probabilmente.
Se non mi piace l’idea di essere rappresentato da Toto Cutugno tanto quanto da Achille Lauro, la narrazione dell’Italia elegante e melodica, ed anche un po’ sciovinista, ha un valore indiscutibile che invece la performance di Achille Lauro non ha né potrà mai avere.
Anni fa Gianfranco Micciché, che dice abbastanza spesso cose che non condivido, ha detto, riferendosi all’intitolazione dell’aeroporto di Punta Raisi a Falcone e Borsellino, che era un grave errore di marketing. Questa affermazione è sgradevole, ma dice il vero. E non sempre il vero deve essere gradevole. Perché intestando un aeroporto, la porta di ingresso di casa tua, scrivi a caratteri cubitali che in questa terra se sei un giudice, sei onesto e difendi la legge vieni ammazzato. Non è esattamente un invito a venire. Non è un bel biglietto da visita.
Nell’intestare l’aeroporto a Falcone e Borsellino, chi lo ha fatto non ha tenuto conto che nell’immaginario del mondo se sei siciliano sei mafioso, e stavamo lavorando per rafforzare quella immagine invece di indebolirla. Altra regola del marketing è di lavora su propri punti deboli. Quello della Mafia è un nostro punto debole, siamo circa sei milioni e rendiamo conto nel mondo tutti per i 4000/5000 affiliati alla mafia.
Probabilmente se chi ha messo quel nome avesse ragionato in termini di marketing, avrebbe chiamato l’aeroporto di Palermo “Porta del Sole”. Perché se c’è una cosa per la quale la Sicilia sarebbe destinazione facile da vendere in Europa e nel mondo è proprio il nostro sovrabbondante sole. Ed immaginate “Palermo Porta del sole” ripetuto centinaia di migliaia di volte al giorno in decine di aeroporti che effetto avrebbe sull’immaginario che ci pertiene?
L’altra sera Fiorello ha dato voce a queste mie riflessioni in modo geniale, con una canzone in pieno stile sanremese, melodica e con i cori, una canzone che fa un po’ il verso ai cliché che ci rappresentano e che però sono anche il nostro business. Cliché che il Festival quest’anno prova a sovvertire con delle presenze che poco hanno a che fare con la musica melodica italiana, e più in generale con la musica a mio avviso, si tratta di proposte che se hanno poca speranza di avere successo in Italia non hanno alcuna speranza di averne all’estero.
Il mondo corre rapidamente là fuori, una delle catene di food più diffuse in Europa e non solo si chiama “Va piano” (come il nostro Slow Food, solo che loro sono stranieri e lo dicono in italiano), è di proprietà tedesca, è presente con 200 punti vendita in 33 paesi e 5 continenti. Qui trovate la distribuzione mondiale (https://www.vapiano.com/en/home/#c11 ) di questo conceptstore che racconta e diffonde l’Italia, il nostro cibo e la nostra filosofia nel mondo.
Che vi piaccia o no, nell’epoca del marketing l’Italia è uno stereotipo che vende e che conviene interpretare. Il messaggio è chiaro, con buona pace dei benpensanti di ogni ordine a grado, e con le loro contrapposizioni estetiche, se non riprendiamo presto a fare noi gli italiani, arriverà qualcuno a farlo al posto nostro e c’è da scommetterci sarà qualche francese o tedesco.