L’emergenza Coronavirus rappresenta una grande sfida anche sotto il profilo dell’innovazione dei modelli di lavoro. Il sistema del lavoro in Italia resta infatti ancorato più a logiche legate a modelli di lavoro non sostenibili, rigidi, legati alla presenza fisica sul luogo di lavoro, che non al risultato.
Il decreto legge 23 febbraio 2020 n. 6, varato dal governo nazionale per contrastare la diffusione del virus sta spingendo molte aziende ed anche la pubblica amministrazione a sperimentare sistemi di smart working.
E così in Italia è prepotentemente entrata in uso la parola smart working, il lavoro <agile>. Si tratta di un nuovo modo di lavorare, che nasce sulla spinta delle nuove tecnologie e permette un approccio più flessibile all’attività produttiva con vantaggi per le imprese e per i lavoratori ma anche per la comunità.
Malgrado l’Italia avesse già una legge tra le più avanzate in Europa (legge 81/2017), procedeva lentissima la diffusione di questo modello di lavoro, che – se correttamente adottato – incide positivamente sulla produttività dei lavoratori (riducendo il tasso di assenteismo), diminuisce i costi di impresa (attraverso la riorganizzazione dei luoghi e dei carichi di lavoro), aumenta il tasso di partecipazione al lavoro delle donne (permettendo la conciliazione vita-lavoro) e migliora l’ambiente (riducendo i carichi ambientali di spostamento per raggiungere il luogo di lavoro, meno traffico, meno rumore, meno incidenti).
Uno studio dell’Università di Stanford ha rivelato che la produttività tra i dipendenti dell’agenzia di viaggi cinese Ctrip era aumentata del 13% con il telelavoro. De Masi ha tracciato una stima di impatto nel modello impresa In Italia, stimando una produttività del lavoro aumentata del 22%.
In linea con le economie più competitive, nel 2017 anche in Italia era stata approvata la legge che prevede l’introduzione del lavoro agile, ma la sua diffusione è stata rallentata dalla rigidità del sistema del lavoro e dalla resilienza delle organizzazioni di lavoro all’innovazione tra un modello di lavoro basato più sul controllo ‘fisico’ del lavoratore che non sul risultato.
Se in 3 anni solo poche aziende hanno trasformato i loro modelli di lavoro e di business, utilizzando le nuove tecnologie per favorire forme di lavoro smart, in pochi giorni a seguito delle deroghe introdotte dal decreto 6/2000 (relativamente soprattutto agli accordi sindacali) sono diverse le aziende che – per non chiudere – stanno organizzando modelli di lavoro agile.
Da un sistema resistente al cambiamento.
L’emergenza spinge infatti alla flessibilità, che è il terreno necessario per innovare.
Se lo smart working si affermasse come una buona soluzione per superare le difficoltà temporanee, significherebbe anche poter dare maggiore spazio in futuro a modelli di organizzazione che prediligono la flessibilità, con maggiori vantaggi competitivi dell’azienda e benefici collaterali, da quelli sulla vita personale dei dipendenti a quelli sul traffico cittadino e più in generale sull’ambiente.
Risparmio di tempo e denaro per gli spostamenti, ottimizzazione del tempo impiegato per lavorare, maggiore produttività. Ma non solo: lavoro agile significa incidere sul paradigma del lavoro spostando l’asse dalla cultura italica dal posto fisso alla cultura del merito e della competitività.
Il mondo del lavoro è cambiato, deve cambiare anche l’approccio al lavoro.
La rivoluzione digitale sta modificando fortemente il mondo del lavoro: il contesto è infatti decisamente cambiato rispetto a qualche anno fa, quando il posto fisso era un punto di arrivo per molti, i percorsi di carriera lineari, il mercato del lavoro più statico. Oggi, non può essere il lavoro l’obiettivo di riferimento, ma la piena occupazione.
Essere smart workers significa sapersi mettere in gioco e reinventarsi quasi quotidianamente, facendo leva solo sulla propria professionalità, sulla capacità di apprendere riapprendere in funzione delle dinamiche del mercato del lavoro.
Gli smart workers possono impostare il loro rapporto con l’azienda in modo relazionale, non si vedono legati per sempre allo stesso lavoro, e questo li rende portati alla transazione personale con l’impresa, mantenendo sempre la loro autonomia. Lo smart worker si orienta con le regole che valgono per il libero professionista. Per il nuovo lavoratore è importante che l’esperienza che sta maturando sia un’opportunità di sviluppo di nuove competenze, nell’ottica della piena occupazione, anche laddove cambia il mondo del lavoro. Per le aziende è fondamentale che chi lavora contribuisca a portare valore all’impresa. La relazione tra impresa e lavoratore si basa cosi sui concetti di valore e merito, e non su posizioni di rendita acquisite.
Insomma, forse una notizia buona dall’emergenza coronavirus c’è, ed e che ci sta portando verso una trasformazione culturale profonda dei nostri modi di pensare il lavoro. Verso traiettorie di maggiore competitività ed occupabilità, se sapremo innovare.