Sono passati 738 anni, da quando il 30 marzo 1282 scoppiò a Palermo una violenta insurrezione contro i dominatori angioini, un’insurrezione, che la storiografia definisce con l’espressione “Vespri Siciliani”.
Nel 1282 la Pasqua cadde il 29 marzo ed era tradizione della chiesa dello Spirito Santo, a circa mezzo miglio a sud dalle mura cittadine di Palermo, organizzare una festa il lunedì di Pasqua. Occasione nella quale, ogni anno, una gran moltitudine di persone si riversava dalla città e dai villaggi limitrofi per assistere alla liturgia del Vespro, celebrata all’ora del tramonto. All’improvviso, un piccolo contingente di soldati francesi si unì alla folla per prendere parte alla funzione religiosa ma presto essi iniziarono ad infastidire molte giovani fanciulle palermitane: in particolar modo, un soldato molestò una giovane sposa, il cui marito, non riuscendo a rimanere inerte dinanzi all’accaduto, estrasse un coltello colpendo il fante angioino mortalmente. Anche gli altri soldati francesi presenti vennero massacrati dalla folla. Nelle settimane successive, l’insurrezione dilagò nel resto dell’Isola.
Molti cronisti, soprattutto siciliani, individuavano quale elemento scatenante dell’insurrezione le violenze e le molestie perpetrate dagli angioini alle donne palermitane, ritenendo che vi fosse un forte nesso tra cattivo governo angioino e la ribellione cruenta e sanguinosa. Ma in tutti gli autori emergono due tendenze, due linee interpretative. Chi, come Bartolomeo da Neocastro, riteneva che la rivolta partisse dal basso, fosse popolare, del tutto spontanea e improvvisa, conseguenza quindi, posizione sostenuta anche da Dante, delle angherie e delle molteplici vessazioni subite da una popolazione ormai avversa allo straniero dominatore.
Chi, invece, come Giovanni Villani, riteneva che l’episodio del “Vespro” fosse stata una contingenza casuale sfruttata e utilizzata da chi, già da tempo, organizzava una ribellione contro i franco-angioini. Una ribellione organizzata dai baroni siciliani di tradizione ghibellina che erano riusciti a intrecciare importanti relazioni internazionali in funzione antipapale e antiangioina, avvicinandosi agli aragonesi, ostili al papa.
In tal modo, non più vicenda locale ma, al contrario, i “Vespri Siciliani” assumevano dimensione internazionale. Che il Vespro siciliano sfuggisse al controllo delle forze locali, diventando questione internazionale, lo dimostra il grande interessamento che molti regni e formazioni politico-territoriali dell’Europa occidentale mostrarono alla vicenda, cercando una soluzione della stessa. Quindi, cosa furono i “Vespri Siciliani”? Una ribellione spontanea e popolare contro il malgoverno angioino? Oppure una sciagura, un disastro che aveva fortemente contribuito alla rovina del regno di Sicilia poiché determinò la rottura dell’unità della corona siciliana, dato che quest’ultima perdeva i territori dell’Italia meridionale e che come scrive Benedetto Croce “fu principio di molte sciagure e di nessuna grandezza”?
Sicuramente fu un evento di portata europea e mediterranea e sicuramente si deve rifiutare l’idea, il mito della mala signoria angioina. Infatti, da una più attenta lettura delle fonti emerge che Carlo d’Angiò cercò di strutturare un’amministrazione efficiente coinvolgendo sempre più la popolazione locale alla cosa pubblica. Durante l’età angioina, le città godettero del diritto di eleggere liberamente un proprio consiglio e propri giudici, del potere di indicare i nominativi per cariche la cui nomina era di competenza regia, il potere di designare propri ambaxatores, infine,detenevano il potere di coordinare la ripartizione e la riscossione dei tributi regi. Quindi, mentre in età normanna e sveva le città erano sotto il controllo di ufficiali regi, ora esse erano amministrate, in parte, da organi cittadini elettivi.
Naturalmente, il riconoscimento di tali ampi poteri amministrativi alle classi cittadine benestanti metteva quest’ultime in contrasto coni ceti nobiliari, che cercavano di prendere il controllo dell’ordinamento cittadino. Il mito del malgoverno angioino si è affermato e si è trasmesso nei secoli in quanto elaborato sulla base di antipatie politiche e storiografiche piuttosto che su un’analisi delle fonti. Quest’ultime evidenziano il legame tra papato, Angiò e classi imprenditoriali e mercantili delle città del centro-nord. Infatti, non è casuale che le città siciliane più legate agli angioini erano quelle che avevano una maggior tradizione e vocazione commerciale come Palermo, Siracusa e Messina.
I principali nemici del sovrano angioino erano i baroni siciliani ghibellini, fedeli agli svevi, e rimasti sconfitti, molti dei quali, dopo la caduta sveva, si rifugiarono in Catalogna sotto la protezione della corona aragonese. I rapporti tra la Corona e la feudalità continuarono ad essere regolati secondo la tradizione normanna e sveva, creandosi conflittualità tra baroni franco-provenzali e baroni latini (locali). Inoltre, la Corona angioina tentò di combattere quei comportamenti baronali che danneggiavano i contadini e l’agricoltura, come il fenomeno delle usurpazioni del demanio regio.
Il mito dell’insurrezione popolare e spontanea portata avanti contro lo straniero angioino oppressore, quindi il mito della rivolta liberatrice, è d’altronde resa evidente dal decadimento socio-politico-economico che investì la Sicilia nei decenni successivi al Vespro,peraltro, nuovamente caduta nelle mani di un altro dominatore straniero. Se è vero che nell’insurrezione del 30 marzo 1282 si registra la partecipazione delle classi popolari siciliane, è altrettanto vero che tale movimento insurrezionale fu coordinato, indirizzato e controllato dagli ambienti baronali ostili agli angioini con la complicità della Corona aragonese.
L’inefficienza delle strutture istituzionali, il prevalere delle forze baronali, il degrado sociale ed economico delle campagne e delle città, il dilagare della corruzione, la spartizione di benefici e privilegi tra baroni catalani e baroni latini, in conflittualità endemica tra loro per il controllo della Corona con il suo conseguente indebolimento: fu questa l’eredità concreta lasciata dal “Vespro”. In tal senso, risultano illuminanti le parole di Giuseppe Galasso, uno dei più grandi storici italiani del XX secolo, il quale scriveva non molto tempo fa “che il risultato ultimo del Vespro fu la segregazione della Sicilia dal più generale moto della civiltà italiana, un isolamento storico e morale, di cui tante tracce ancora oggi rimangono nella vita siciliana”.