“Perché mai questo sventurato non ha almeno abdicato?”
Così annotava nel suo diario, il 3 ottobre 1943, Benedetto Croce. Lo “sventurato” era Vittorio Emanuele III che il filosofo napoletano, come ebbe a dichiarare a un giornale inglese, giudicava il principale responsabile per l’avvento e la durata del fascismo. Il suo immutato filo fascismo era confermato dalla stessa composizione del governo Badoglio. I ministri sono uomini di personale fiducia del sovrano, tratti dall’esercito, dall’alta burocrazia, dalla magistratura amministrativa; rigorosamente esclusi gli esponenti dei partiti antifascisti. Un governo che con la fuga a Bari della famiglia reale, di Badoglio e due soli ministri, si è sbriciolato l’8 settembre: mentre gli altri ministri, i comandi delle Forze armate, i cittadini sono rimasti senza direttive, alla mercé delle truppe tedesche e delle redivive forze fasciste.
Badoglio, anche su sollecitazione dei nuovi alleati, cerca una minima apertura. Il 13 ottobre 1943 dichiara il suo impegno ad integrare il gabinetto con “i rappresentanti di ogni partito politico, così da costituire una vera espressione di governo democratico del paese, fermo stando il principio già enunciato, che finita la guerra, il popolo italiano sarà libero di scegliere, con le elezioni, il governo che più gli aggraderà”. Analogo messaggio viene dagli Alleati che riconoscono al popolo italiano il diritto “di decidere senza influenze esterne e per le vie costituzionali sulla forma democratica di governo che esso vorrà eventualmente avere”.
La “forma di governo”, che i due proclami rimettono alle future scelte del popolo italiano, è diversa dalla “forma di Stato”. L’opzione tra monarchia e repubblica non è compresa fra queste scelte perché attiene alla forma di stato.
Non è questa la posizione del Comitato di Liberazione Nazionale Centrale.
Con un ordine del giorno del 30 settembre 1943 il C.L.N. Centrale, all’unanimità dei partiti rappresentati, esprime la sua sfiducia nel governo Badoglio, il rifiuto di farne parte, e la volontà, una volta liberata la capitale (ciò che sarebbe avvenuto il 5 giugno dell’anno successivo), di formare un governo costituito dal C.L.N. stesso.
Né è valsa ad ammorbidirne i toni la cauta apertura di Badoglio. Tre giorni dopo il proclama del Capo del governo il Comitato di Liberazione Nazionale approva a Roma un ordine del giorno “La guerra di liberazione, primo compito e necessità suprema della riscossa nazionale (…) non può farsi sotto l’egida dell’attuale governo costituito dal re e da Badoglio”; “deve essere perciò promossa la costituzione di un governo straordinario il quale sia l’espressione di quelle forze politiche che hanno costantemente lottato contro la dittatura fascista e fino dal settembre 1939 si sono schierate contro la guerra nazista”.
Il manifesto si chiude col proposito di “convocare il popolo al cessare delle ostilità per decidere sulla forma istituzionale dello Stato”.
È chiaramente delineata l’alternativa monarchia-repubblica: anche se, nel testo predisposto da Giovanni Gronchi, viene inserito un inciso. “Questo governo dovrà assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato evitando ogni atteggiamento che possa compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare”. Il congelamento della questione istituzionale, in attesa della “futura decisione popolare”, è frutto di un emendamento al testo formulato da Ivanoe Bonomi: preoccupato di garantire la continuità giuridica e politica dello Stato, quanto meno nei confronti degli Alleati, con i quali il governo del re ha concluso l’armistizio.
Non occorre essere giuristi per cogliere la contraddizione tra la volontà di tenere in piedi, sia pure provvisoriamente, la monarchia e la volontà di formare un governo che assuma “tutti i poteri costituzionali dello Stato”: e quindi anche i poteri del re.
Alla fine di gennaio 1944 si tiene a Bari il Congresso dei partiti del C.L.N.: autorizzato dal Questore “a condizione che non venga a turbare la pubblica tranquillità”, si svolga “in un locale chiuso” e “sia limitato il numero di coloro che dovranno parteciparvi”.
Venuti a conoscenza dell’o.d.g. del 16 ottobre 1943 (l’Italia era tagliata in due), i partecipanti chiudono il congresso, con qualche contrasto, affermando che “presupposto innegabile della ricostruzione morale e materiale italiana è l’abdicazione immediata del re, responsabile delle sciagure del Paese”.
Il 9 febbraio 1944, da Napoli, la Giunta del C.L.N. notifica a Vittorio Emanuele III la decisione del Congresso antifascista, chiedendogli di abdicare nel rispetto della volontà dei partiti che rappresentano la maggioranza del popolo.
Il re oppone resistenza. Ha l’avallo di Churchill che il 6 novembre 1943 in un messaggio a Roosevelt aveva riaffermato la necessità di sostenere il re d’Italia e il suo governo, come garanzia di continuità dello Stato e della lealtà della flotta italiana al servizio degli Alleati. Tre mesi dopo, parlando alla Camera dei Comuni, il premier britannico ribadisce la sua posizione. Teme che un nuovo governo possa avere minore autorità sulla flotta e sul residuo apparato militare e civile dello Stato italiano finché la battaglia per Roma è in corso.
La situazione è sbloccata da Enrico De Nicola.
In un colloquio a quattr’occhi (19 e 20 febbraio 1944) egli riesce a strappare al re la promessa di cedere i suoi poteri a un lugotenente (il figlio Umberto) che si sarebbe insediato dopo la liberazione di Roma. Una soluzione analoga la Giunta esecutiva dei partiti antifascisti aveva proposto agli alleati, indicando però come luogotenente il nipote del re, il piccolo Vittorio Emanuele, sotto la tutela di Badoglio.
Il 12 aprile 1944 il re dichiara, in un proclama letto a Radio Bari, di ritirarsi dalla vita pubblica, nominando “Luogotenente mio figlio, Principe di Piemonte”; e il 5 giugno, dopo la liberazione di Roma, formalizza la nomina, trasferendo a Umberto l’esercizio di “tutte le prerogative Regie, nessuna eccettuata”.
Prima che il re manifestasse la sua intenzione, maturata nel convincimento che in questo modo egli avrebbe contribuito a salvare la monarchia, la Giunta esecutiva, ostile al governo Badoglio, era stata spiazzata da Palmiro Togliatti, che arriva dall’URSS e sbarca a Salerno dopo un viaggio avventuroso. In un discorso tenuto il 27 marzo 1944, Togliatti chiede l’integrazione del Governo Badoglio con le forze antifasciste, accantonando per il momento la questione istituzionale, la cui soluzione va rinviata ad “un momento può adatto”. Prioritaria è “la lotta comune contro la Germania hitleriana”. “Contro Badoglio – preciserà Togliatti in una intervista del 31 marzo – non abbiamo nessuna pregiudiziale”.
La “svolta di Salerno” è voluta da Mosca, che intende avere voce in capitolo in Italia e forse teme che una rottura istituzionale, spezzando la continuità col fascismo, e quindi attenuando la responsabilità dell’Italia, non garantisca le sostanziose riparazioni di guerra cui l’URSS aspira.
Nasce così, il 22 aprile, il nuovo governo Badoglio.
Entrano a farne parte i rappresentanti dei sei partiti del C.L.N. Il programma di governo, approvato cinque giorni dopo, prevede una tregua sui problemi istituzionali la cui soluzione è affidata ad una futura Assemblea Costituente eletta a suffragio universale.
Non appena entra in funzione, il Luogotenente si scontra con la volontà del C.L.N. di sostituire Badoglio. Il 18 giugno 1944 egli nomina presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi. Agisce nella qualità di Luogotenente generale del Regno (e non del re: il cambiamento è preteso dagli antifascisti) e la formula del giuramento cambia: non si fa più riferimento alla Casa Savoia ma all’“interesse supremo della Nazione”.
Il nuovo governo deve fare i conti con gli Alleati anglo-americani, che sono divisi sulla questione istituzionale (gli Americani tendenzialmente a favore della Repubblica, gli Inglesi per la monarchia). Prendendo atto della situazione di minorità del governo italiano, il 18 giugno 1944 Bonomi scrive al Ten. Gen, Sir Noel MacFarlon, Capo della Commissione alleata di Controllo, dichiarando l’impegno del governo “a non riaprire la questione istituzionale, senza il preventivo consenso dei Governi Alleati, fino a che l’Italia non sarà stata liberata e il popolo italiano non avrà l’opportunità di scegliersi da sé la forma di Governo”.
Come avverrà questa scelta lo anticipa il decreto luogotenenziale n. 151 del 3 luglio 1944. Ad un’Assemblea costituente, eletta a suffragio universale, spetta il compito, a guerra finita, di “deliberare la nuova Costituzione dello Stato”.
È implicito che sarà la Costituente a scegliere tra monarchia e repubblica. La cosa, fortemente voluta dai tre partiti di sinistra (socialisti, comunisti e azionisti), allarma De Gasperi: che dopo un secondo governo Bonomi e il governo Parri, è diventato presidente del Consiglio.
Egli sa che l’elettorato democristiano è diviso tra monarchici e repubblicani. Qualunque potrà essere la scelta dei consultori DC, essa scontenterà una parte del popolo democristiano. Preferisce quindi liberare la dirigenza del partito dall’onere di una presa di posizione (che sarebbe inequivocabilmente a favore della repubblica) ed affidare la scelta a un referendum popolare. Le sinistre temono che un plebiscito avvantaggerebbe i Savoia, che una popolazione diseducata politicamente da venticinque anni, chiamata ad “optare fra un’incognita nebulosa ed un istituto che comunque esiste e si presenta con un volto paterno e indulgente”, voterebbe in maggioranza per il mantenimento dell’esistente. Tuttavia comunisti, socialisti e azionisti non possono rigettare il ricorso al referendum se non a prezzo di apparire antidemocratici. E quindi accettano la proposta di De Gasperi (che suscita, invece, la violenta reazione di Giuseppe Dossetti che si dimetterà da vice segretario della DC con una lettera polemica in cui accusa De Gasperi di conservatorismo).
Quello che le sinistre riescono ad evitare è l’altro pezzo della proposta di De Gasperi: che il voto al referendum sia reso obbligatorio. Resistono sul punto, consapevoli che il voto di chi si recasse alle urne perché obbligato, sarebbe un voto monarchico.
Col decreto luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98 vengono indette le elezioni per il 2 giugno successivo. Il popolo è chiamato ad eleggere l’assemblea costituente e, nello stesso tempo, a scegliere tra monarchia e repubblica.
I timori della sinistra, e dei repubblicani democristiani, sono fugati dall’esito del voto. Dopo una laboriosa conta delle schede, la Repubblica prevale sulla monarchia con 12.718.641 voti contro 10.718.502. Prevale con uno scarto limitato, che sarebbe stato ancora più esiguo se fossero stati calcolati non i soli voti validi, ma i voti complessivi, compresi quelli nulli; come reclamerà un gruppo di docenti dell’Università di Padova di fede monarchica. Ma anche così la repubblica sarebbe prevalsa (per 453.506 voti).
A nulla è valso il tentativo in extremis del re di rilegittimare l’istituzione monarchica abdicando, meno di un mese prima del voto,, in favore del figlio Umberto.
L’Assemblea Costituente, alla quale in un primo momento era stata rimessa la soluzione della questione istituzionale, si è poi imitata a blindare la scelta popolare: “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale (art. 139 Cost.).
Riconoscendo che la “sovranità appartiene al popolo” (art. 1 co. 2) l’Assemblea Costituente esclude che la sovranità possa avere una fonte diversa. Il Capo dello Stato non è più tale “per grazia di Dio” (così la legge 17 marzo 1861, con cui Vittorio Emanuele II “assume per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia”). Conta soltanto la volontà del popolo espressa attraverso il parlamento che elegge in seduta comune il Presidente della Repubblica (art. 83 Cost.).
Per usare la terminologia di Max Weber, non c’è più un potere “tradizionale”, come nelle monarchie ereditarie; ed è venuto meno il 25 luglio 1943 il potere “carismatico” del dittatore. L’Italia entra pienamente nell’epoca del potere “legale-rationale”.