La 21ª puntata della rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il 4° Capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
4° CAPITOLO
n quel periodo la mia vita acquistò un senso perché amavo, riamata, un cane di nome Brill che era tutto mio. Era l’amico ideale. Potevo raccontargli tutto, non l’avrebbe riferito a nessuno, potevo non parlare e lui rispettava il mio silenzio, potevo essere come volevo, senza curarmi di nulla. Brill era fedele, ci comprendevamo, era paziente quando diventavo capricciosa, solo i suoi occhi mi facevano capire se sbagliavo. Quando non volevo neppure averlo accanto e, con il suo silenzio, mi faceva prendere coscienza dei miei errori e gli chiedevo scusa. Perché, pensavo, gli uomini non sono capaci di fare come gli animali? Di accompagnare al comportamento la pazienza, di amare senza chiedere niente in cambio, di non lasciare un amico se è in difficoltà, ma di aiutarlo?
Che bello il Natale a Montecreto!!! Tutte le case erano piene di luci, se si apriva la porta, il profumo del brodo ti faceva aumentare la salivazione.
Aiutavo la mamma a preparare il Presepe, con tante figurine che si muovevano; l’acqua scorreva, il cielo lo facevamo con una carta azzurra piena di stelline.
Il piccolo Gesù era nella mangiatoia, accanto al bue e all’asinello che, con il fiato, lo riscaldavano. Ogni anno, pur facendo le stesse cose, sembrava un Natale diverso. Noi ragazzi rimanevamo attoniti a guardare Gesù bambino di sempre, e una volta chiesi a mia madre: «Perché Gesù non cresce mai? Non si sarà ammalato tutti gli anni nudo in quella mangiatoia?»
La mamma mi rispose: «Il presepe è un modo per mantenere vivo il ricordo della nascita di Gesù che scelse di venire al mondo in una stalla, per dividere con noi la condizione umana. Vedi Roberta, tante cose noi non possiamo spiegarcele, vanno accettate per fede.»
Da grande compresi che il vero Natale è nel cuore di tutti noi, ma essere circondati dai suoi simboli rendeva l’atmosfera ideale.
Papà aveva tredici fratelli ed io, ogni tanto, mi accoccolavo vicino alla carrozzina e mi facevo raccontare la storia della sua famiglia. Erano i nostri momenti, lui riviveva persone e fatti ormai lontani ed io imparavo a conoscere le mie origini.
Di tutti i suoi fratelli Mario, era quello al quale era molto legato e anch’io lo amavo tanto per l’intesa con mio padre, per la sua ironia trasmessa a sua figlia, mia cugina, da me sempre considerata una sorella.
Cosa c’è di più bello per due fratelli che si vogliono bene di vedere crescere i propri figli insieme, uniti seppur nella loro diversità? La nostra vita era affollata di affetti ed io, nonostante la mia giovane età, lo percepivo, ascoltavo mio padre con attenzione e mi divertivano certi particolari che non seppi mai se veri o frutto della sua fantasia. Le sue parole, i suoi gesti mi portavano lontano il cuore e la mente, e le sue gambe immobili mi ricordavano che si devono fare i conti con la realtà.
Quella casa fu molto vissuta anche per lunghi periodi, soprattutto quando papà era ricoverato.
Io stavo con la sig.ra italofrancese che, come mia madre, teneva tanto alla bellezza e forse a ciò devo anche il mio amore per il bello.
Un giorno, andai a trovare papà con loro ed avevo in mano un mazzolino di fiori.
In quella clinica era tutto pulito e, per me, fu naturale pensare come in un posto simile, forse, si poteva soffrire in maniera più lieve. Non ero ancora in grado di capire che la sofferenza annulla tutto ciò che ti circonda e che il tuo orizzonte si restringe a te stesso, a ciò che ti senti e che vivi.
Quando parlo della mia permanenza a Montecreto, non posso non parlare di Enzo.
Io e mia cugina Cristina cominciavamo a scoprirci più donne, a sognare il principe azzurro e, inutile dirlo, il mio aveva il viso di mio padre.
Questo padre con le sue molteplici positività era anche una figura ingombrante e mia madre lo sapeva bene.
Io consideravo mia madre una donna molto fortunata per avere accanto un uomo generoso con tutti e per il quale rendere felici gli altri era più importante della sua felicità.
Io, per lui, ero sempre la sua bambina da proteggere. Questo, da piccola, mi rendeva felice, ma crescendo ho pensato che un padre, come tutti, sbaglia. Anche voler troppo bene è un errore perché annulla ogni distanza tra colui che ama e chi è oggetto d’amore. Un amore totalizzante non permette di vedere con lucidità gli errori e le negatività di chi ci ama e, quindi, non ci difendiamo. È a quell’età che si delinea in noi l’accettazione o il rifiuto. Avevo trent’anni e stavo per partire.
Ricordo quando mio padre mi accompagnò alla stazione, mi affidò al capotreno e gli disse di vegliare su di me.
Andavo a trovare un’amica in Sardegna, a Porto Rotondo. Era la mia prima vacanza, mi affacciavo sul mondo che, fino ad allora, era stato ristretto a Montecreto. Non mi pesava lasciare i miei perché avevo voglia di conoscere e provare emozioni nuove, vedere altra gente, altri tramonti, di far galoppare il cuore oltre l’orizzonte ristretto che conoscevo. Fu una bella vacanza, fra bagni e partite di tennis. C’era un gran giro di VIP.
Io indossavo spesso capi firmati, fui notata da una signora per un capo di sua creazione da me elegantemente portato.
La sera, mi portò a bere con lei, trascorsi una bella serata e, come una bimba, al telefono, raccontai ai miei l’accaduto.
Papà era felicissimo di sentirmi contenta ma, pochi giorni dopo, tornai a casa e alla stazione c’era, ad attendermi, mio fratello. Compresi subito che qualcosa era successo.
Il sole era nascosto da nuvole, pesanti di pioggia. Ci eravamo bagnati tante volte io e mio fratello con quei temporali che ci avevano diviso e quella distanza sarebbe rimasta tra noi come incomunicabilità.
Qualcosa dentro di me piangeva, anche se sapevo come eravamo andati avanti tra alti e bassi, perché l’importante era non mollare e non perdersi.
Per me e mia cugina Cristina era il momento in cui i sogni e gli amori bussavano, avevamo tanti ragazzi che ci facevano sentire desiderate ma io non mi accontentavo, io volevo la favola. A tal proposito, un mio occasionale compagno di viaggio mi chiese come mai, carina com’ero, non avessi un fidanzato.
Risposi: «Non è facile trovare la persona giusta.»
Lui ribatté: «La persona giusta è solo una questione di testa, basta cambiare prospettiva per accorgersene, qualcosa di giusto ce l’abbiamo tutti.»
Lui parlava, ma non sapeva che io un grande amore l’avevo già. Poche frequentazioni diventano serie e belle amicizie ma con mia cugina Cristina accadde.
Trascorrevamo insieme le vacanze scolastiche a Montecreto.
Sicuramente stare insieme ogni anno, per quasi tutta l’estate, ci permetteva di conoscerci bene, di condividere tutto, dal più piccolo segreto ai ricordi di famiglia, anche ai problemi spesso presenti. Non è facile, compresi col senno di poi, che un rapporto di parentela diventi anche amicizia. La caratteristica dell’amicizia sta proprio nella mancanza di legami, nell’assoluta libertà di poter dire ciò che si pensa, nel confronto e nell’accettazione dell’altro senza riserve. Compresi quanto io e mia cugina eravamo fortunate!
Bastavamo l’una all’altra, perché ci compensavamo e riuscivamo ad aiutarci quando una di noi due aveva dei problemi.
Non litigavamo mai, almeno non per cose importanti di cui io, oggi, abbia memoria.
Caterina Guttadauro La Brasca
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