La rubrica “Romanzi da leggere online” prosegue con il ventunesimo capitolo del romanzo di Caterina Guttadauro La Brasca, “La voglio gassata”.
CAPITOLO 21°
L’ultima visita fu quella del chirurgo, un uomo di capacità ed umanità rare che, a suo tempo, aveva operato Emy.
Ci spiegò tutto e, soprattutto, la necessità di fare un trattamento chemioterapico per ridurre le dimensioni del tumore e fare, successivamente, la quadrantectomia.
Adesso vedevo più gente malata che sana, tanto era la frequenza con cui andavo al Sant’Orsola.
Nonostante le spiegazioni, la paura aveva la meglio su di me. Pensavo: «con la chemio che succederà al mio midollo già malato?»
Antonio fugava il mio dubbio con convinzione, dicendo: «A quello ci penso io.»
Ecco, erano persone come lui, come le ragazze di Casa A.I.L., sempre sorridenti e disponibili, a non moltiplicare per mille ciò che sentivo.
L’oncologa, donna come me, conoscendo bene l’indole femminile, mi suggerì di accorciare i capelli per non sentirmi troppo diversa quando, per effetto della chemioterapia, sarebbero caduti.
Già stavolta il mio disagio non avrebbe abitato solo dentro di me, ma mi avrebbe segnalato a tutti un tumore in corso.
Quante donne avevano vissuto e vivevano la mia storia? Quante si vergognavano la sera a spogliarsi e poi, a letto, sperare di non essere toccate dal proprio uomo, per non fargli provare disagio e ritrarre la mano fredda e vuota?
Saremo un esercito nel mondo, e se tutti provano le stesse cose che provo io, se gettiamo tutte la spugna, ci diamo più chances?
Al contrario, azzeriamo la nostra possibilità di farcela e diamo dell’incompetente a tutti quei ricercatori che lavorano, tutti i giorni, per trovare una nuova frontiera, per ridarci il sorriso e salvaguardare la nostra femminilità.
Tornavo, mentre pensavo tutto questo, dal colloquio con l’oncologa. Ero fuori dall’ambulatorio e camminavo ad occhi bassi, come facevo negli ultimi tempi perché ero talmente leggibile, che chiunque avrebbe capito.
A terra, dove si posò il mio sguardo, notai un sassolino che aveva inequivocabilmente la forma di un cuore.
Fu come lavarmi l’anima e mi sentii dire: «Non hai il diritto di tradire la mia fiducia, la tua forza, Roberto, Emy, Antonio, Bum Bum che ti vogliamo bene. Tu hai tutti questi motivi per lottare, sai che c’è una buona parte di noi che può decidere se vivere o morire e che tu hai scelto finora la vita. Farcela si può!»
La voce che mi parlava era quella di mio padre che, ancora una volta, aveva trovato le parole giuste per farmi dire: «Ok papà, hai ancora una volta ragione. Ce la metterò tutta per farcela ma io potrò fare solo la mia parte, se non dovessi farcela aspettami.»
Come sempre i segni della presenza di mio padre mi restituivano alla vita.
La dinamica era sempre la stessa, ecco perché non poteva più essere casuale.
Lui, da bravo padre, sapeva che la vita non si impone ma si sceglie.
Non so se è prerogativa delle donne avere un intuito affinato, so che tante volte nella mia vita, ho sentito innanzitempo fatti e situazioni che avrei vissuto successivamente.
Tante volte, guardandomi allo specchio, mi appiattivo i capelli fino a cancellarne lo spessore e rimanevo a viso nudo. Ecco la dicotomia delle donne: amare con sofferenza e soffrire con amore. Talvolta siamo ben consapevoli di farci male e quasi ne abbiamo compiacimento. Forse perché sappiamo che quell’attimo di gioia che proveremo dopo sarà di inestimabile valore.
Mi chiedevo: «Perché Roberta mortifichi la tua immagine in questo modo? Che senso ha?»
Sentivo il preannunciarsi di una tempesta e che per tentare di salvarmi avrei pagato un caro prezzo. I mie capelli rientravano in quel prezzo. Non riuscivo a identificarmi in persone che avevo visto tante volte calve, per effetto della chemioterapia. Ma bisogna usare la pazienza perché, come dice Baricco: “Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde.”
Tante volte quando ero in un momento drammatico, dopo la fase di scoramento, scoprivo di non essere sola, e le persone che conoscevo si attivavano per me.
Una di queste fu la mia parrucchiera. Una mattina insieme trasformammo un inconveniente angoscioso in un passatempo: andammo a comprare una parrucca.
Era una giornata di sole, ci sedemmo nel bar più bello della piazza a prendere un caffè.
Sembravamo due signore in vena di fare shopping e pettegolezzi, ma non era così. Mi divertiva quasi immaginare i pensieri di chi ci osservava, stimolarli con lo sguardo, tanto cosa avevo da perdere, solamente la vita! Mi avrebbero fatto un’avance? Sarei stata generosa, almeno a cose finite avrebbero avuto un bel ricordo. Smettila Roberta, mi dissi, stavo rattoppando un buco per recuperare il maglione.
La commessa, gentile, mi suggerì: «Provi anche la bandana signora!»
«Si, proviamola», mi dissi.
Era piena di colori, quelli che mancavano in quel momento nella mia vita.
Mi divertiva la mia immagine: un bel contrasto, la pelle scura con una cornice di colori brillanti.
Fui la prima a sorprendermi quando dissi: «Ma ho un look da Costa Azzurra». Forse era la prima volta, in quel periodo, che riuscivo a fare dell’autoironia.
Il 6 marzo avrei iniziato il ciclo della chemioterapia. Perbacco inauguravo una bella primavera!
Era un trattamento che non esigeva il digiuno, potevo fare la mia bella colazione.
Avevo comprato delle riviste per ingannare il tempo durante la chemio, ma il mio pensiero andava oltre, agli effetti che avrei dovuto sopportare per consentire a quelle medicine di raggiungere e combattere le mie cellule malate.
Avevo sentito parlare di nausea, vomito, dolori talvolta non sopportabili.
Quando mi staccarono il tubicino, andai fuori, avevo sete d’aria, bisogno di muovermi, mai una giornata mi sembrò più bella.
Quel sole che splendeva era lo stesso di tutti gli altri giorni, ma a me sembrava più caldo e luminoso.
Com’è bello vivere, pensai, ma soprattutto quanto è importante rendersene conto.
Rientrata a casa, mi misi a letto e rimasi ad aspettare un ipotetico nemico.
Come per un’intesa, mi chiamò il mio angelo/dottore e ovviamente gli chiesi subito: «Antonio, secondo te mi verrà il vomito?»
«No, mi rispose, se ancora non ne hai avvertito i sintomi, probabilmente non ti verrà. Comunque previenilo prendendo il farmaco che ti hanno dato da assumere all’occorrenza.»
Passai una notte tranquilla, il giorno dopo con la mia famiglia andai al mare.
Mi sembrava di vivere tutto per la prima volta, l’entusiasmo, la serenità, il buon cibo, mi sentivo miracolata.
Stranamente mi sembrava che quella chemio mi avesse fatto capire che in ogni attimo della vita rischiamo, ma quanto è bello tornare poi a vivere!
Il conto era lungo, dovevo fare altre sette chemio, ma riuscivo a convivere con questa prospettiva.
Quel liquido svolgeva bene il suo compito, io il mio: mi distraevo, uscivo con i miei amici, cene e aperitivi, della nausea neanche l’ombra.
I capelli resistevano, ciglia e sopraccigli erano folte, ero io la più forte pensavo, ancora una volta avevo trovato il coraggio di guardare, con un sorriso, la morte in faccia.
Ma avevo tratto delle conclusioni troppo velocemente e quando andai in parrucchieria dalla Monica, mi sentii dire: «Roberta che ne dici se ti taglio un po’ i capelli, ne cade qualcuno».
Ho capito che da lì a poco li avrei persi tutti.
Qualche pomeriggio dopo, pensavo di andare, su invito, all’inaugurazione di un nuovo negozio di abbigliamento, la mia passione. In altri tempi avrei cercato compagnia, un’amica, una conoscente con la quale commentare i capi, gli accessori, i modelli. Poi, come sempre, ci sarebbe scappato l’acquisto e il progetto: quando metterlo, era un vestito molto originale ma volevo cambiare perché io stavo cambiando o no?
Caterina Guttadauro La Brasca
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