I Pupaccena, nome di per sé immaginifico, o Pupi ri zucchero, per rendere immediatamente comprensibile cosa siano, anche a chi siculo non è, spiccano e svettano come eroi, essendo paladini di Francia e figure dell’opera dei pupi, colorando tutte le pasticcerie e le bancarelle allestite per la festa dei Morti.
L’origine dei pupaccena si fa risalire a due leggende: secondo la prima, un nobile arabo caduto in miseria, in mancanza di cibo prelibato, offrì ai suoi ospiti dei dolci dalla forma umana da cui deriva appunto il nome di “pupa a cena”, poi divenuto pupaccena; per la seconda, invece, risalirebbero al 1574, quando a Venezia, in occasione della visita di Enrico III, figlio di Caterina de’ Medici, fu organizzata una cena resa indimenticabile da sculture di zucchero che, nella città veneta, furono trasportate dai marinai palermitani. Questi, al loro ritorno nell’isola, raccontarono il successo delle creazioni e, così, immediatamente i dolcieri iniziarono a riprodurle.
I pupi ri zuccaro o pupaccena sono dolciumi antropomorfi, statuette cave fatte di zucchero indurito e dipinto che, nel mondo di oggi, rappresentano anche ballerine, giocatori, personaggi dei cartoni animati e dei fumetti e sagome di animali. Modellate da appositi artigiani, detti “gissara“, le varie figure vengono elaborate in un calco che è costituito da due parti, una anteriore, la più intarsiata, e una posteriore, di solito disadorna. Lo zucchero viene lavorato per fusione, sciolto in acqua ad alta temperatura in un tegame di rame e mescolato ad un concentrato di limone “cremortartaro”, per assicurare la necessaria sbiancatura.
Una volta fuso viene introdotto all’interno dei calchi in modo che occupi, con un sottile spessore, le rispettive pareti e resti vuota la parte interna dello stampo. Dopo averli fatti raffreddare, con estrema delicatezza, vengono estratti dalle formelle per essere sottoposti alle opportune decorazioni. Per la pittura sono utilizzati prevalentemente colori alimentari: il giallo, dallo zafferano; il rosso, dal pomodoro; il bianco, dal latte e dalla farina; lo scuro, dal cacao; il nero brillante dalla seppia e il verde brillante da alcune verdure. Dopo il necessario tempo di posa, per l’asciugatura del colore, si passa alla vera e propria decorazione e la statuetta viene “impupata” con lustrini di carta colorata, palline di zucchero argentate e nastrini di ogni forma e colore.
Rigide, impalate e acchiappa sguardi, i Pupaccena campeggiano su ossa di morti, i crozzi ‘i mottu, pupatelli ripieni di mandorle tostate, i tetù bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao, frutta secca cioccolatini e frutta di martorana.
Ma qual è il motivo per cui si chiamano “Pupaccena?” Perché sono dei “pupi di e per la cena-sacra”, da mangiare con uno stato d’animo che dovrebbe essere volto alla spiritualità. Da Pitrè a Buttitta, molti antropologi hanno studiato il significato storico e culturale di questa particolare usanza che si ricollega al banchetto funebre del cunsolo. C’è chi vi ha visto un richiamo a Mania, madre o nonna degli spiriti, a cui si offrivano delle pupe di lana apotropaiche appese sulle porte di casa o nei quadrivi per far si che in quel giorno gli spiriti dei morti erranti per il mondo prendessero le effigi sulla porta lasciando in pace le persone della casa.
In Sicilia, invece, i dolci venivano disposti ordinatamente su una tavola, perché si riteneva che in quella notte i cari defunti venissero nella loro antica dimora per una cena che, inizialmente apparecchiata in loro onore, si trasformava in cibo da regalare ai più piccoli. Una volta, addirittura, si facevano dei banchetti nel cimitero stesso per poter essere più vicini aldilà e il due novembre era una sorta di congiunzione tra i il mondo dei vivi e quello dell’altrove, da non vedere popolato da zombie, ma da numi che, in quella data, portavano doni ai propri parenti.
In questa frase molto profonda: “A cu zuccaru a cu fieli ognunu avi lu distinu chi veni…stasira cc’è lu celu annuvulatu d’un velu di tristizza cummiugghiatu“, c’è tutto il senso di questa ricorrenza che, nonostante lo zucchero, vede un cielo nuvoloso coperto da un velo di tristezza.”
Una storia da Sherlock Holmes
La storia che vogliamo raccontarvi, una sorta Spy Story, afferma che i primi pupi di zucchero furono creati, in realtà, in Cina; non storcete il naso, ma leggetela fino in fondo per avere una sorpresa. In essa si afferma che furono i veneziani e, più precisamente, Marco Polo, a importare i primi pupi di zucchero, allora comunissimi nel Celeste Impero, e il procedimento che li rendeva cavi e permetteva, così, di nascondere all’interno documenti da portare in Occidente. Le informazione erano, in realtà, barrette di zucchero sui cui si scriveva un messaggio, un procedimento di fabbricazione segreto, che veniva inserito nelle cavità del pupo e opportunamente “saldato” con caramello.
Fu probabilmente così che venne importata in Occidente la formula della polvere da sparo, fino allora segretissima e i primi bachi da seta, avvolti nella quantità di foglie di gelso sufficienti a consentire la sopravvivenza dei preziosi animaletti durante il lungo viaggio. Alla luce di tutto ciò acquistano significato certi fatti riportati dalle cronache della Serenissima di quel tempo, come l’esplosione di un ordigno, indicato come “Pupasso di cen”, durante una cena a lume di candela nella casa della favorita di un Doge. Le candele, infatti, erano risultate troppo vicine al “pupasso” che il nobiluomo aveva portato, probabilmente, in dono alla dama per propiziarne i favori. Il fornitore di Marco Polo era un cinese di nome Chen, che si legherebbe all’etimologia di “Pupaccena”. Adesso un paio di dettagli: il primo è che le statuette, ovviamente, erano solubili in acqua e questo consentiva, in caso di emergenza, di disfarsi rapidamente del corpo del reato e il secondo, invece, sveliamo il mistero, è che questa geniale storia è stata inventata dallo scrittore palermitano Carlo Barbieri.
Non possiamo che chiudere con: “Viva la Sicilia e la genialità tipicamente trinacriese“.
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