Nel 1911, l’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridonali e sulla Sicilia, meglio nota come Inchiesta Lorenzoni, segnala che il divario fra Nord e Sud e fra la Sicilia e il resto del Paese, presente fin dal momento dell’Unità, piuttosto che diminuire è cresciuto.
La relazione finale dà un quadro drammatico delle condizioni di arretratezza dell’agricoltura siciliana. Infatti, descrive come praticamente inesistente la meccanizzazione agricola, la persistenza di condizioni igienico sanitarie incompatibili con un minimo di civiltà, i contadini infatti continuavano ad essere afflitti dalla malaria e la denutrizione o la cattiva nutrizione favoriva la diffusione di patologie in altre parti del Paese in gran parte inesistenti. Inoltre anche per le condizioni succitate la mortalità infantile era altissima anche rispetto alla media nazionale.
Ad aggravare questo disastro contribuivano altre mancanze. L’anafalbetismo era generalizzato e questo rendeva deboli rispetto alle clausole giugulatorie che i latifondisti, ma sarebbe meglio dire i gabelloti e gli affittuari in gran parte mafiosi, imponevano a chi lavorava la terra. Infine le condizioni di lavoro evidenziavano una palese situazione di sfruttamento, il contadino, che doveva raggiungere il luogo di lavoro dopo una lunga marcia, quasi sempre a piedi e nella migliore delle ipotesi cavalcando qualche asino, prestava la propria opera “da suli a suli”, cioè dal levar dall’alba al tramonto, oltre le 12 ore, senza pause, nutrendosi di un tozzo di pane e di qualche bicchiere di vino, doveva lavorare sotto l’occhio vigile di quanti erano preposti alla sorveglianza.
In Sicilia, in particolare, l’Inchiesta evidenziava il persistere del latifondo e una forte concentrazione della proprietà nelle mani di pochi possidenti. Sorprende il fatto che, nonostante tutti i tentativi di redistribuzione, solo 19 di essi possedevano estensioni di terreno di oltre quattromila ettari, cinquantuno di essi ne possedessero oltre 2.000, centotre oltre i 1.000 e seicento quattordici oltre i duecento ettari, in pratica meno di 1.000 soggetti possedevano gran parte della proprietà agraria in Sicilia. Una situazione insostenibile a cui – anche a causa degli eventi internazionali che coinvolsero il Paese, la guerra di Libia prima e la prima guerra mondiale dopo – non si provvide come sarebbe stato necessario provvedere.
Aveva, dunque, ragione Michele Vaiana, quando nel 1911 denunciava: “Fra noi e i popoli del Nord intercedeva ieri una differenza, oggi quella differenza è aritmeticamente cresciuta, domani lo sarà ancor di più e finalmente è vicino il giorno in cui la nazione avrà due popoli da governare: il popolo per eccellenza, fregiato di tutte le virtù e il popolo vile, la cui turba plebea, satura di tutti i vizi, la vile marmaglia.”