E c’è un via vai da casa tua, Leda (ti chiamerò così). C’è da quando una gazzella dei carabinieri ti ha lanciata contro l’asfalto in via Cappuccini, a Palermo, lo scorso sabato.
Leda, io ti so, so i tuoi occhi neri, indiana dello Sri Lanka, bellissima ragazza di 11 anni. Ti ho vista crescere nelle scale di casa mia. Coi profumi della vostra cucina che a farceli andare giù abbiamo preferito predisporre una finestra basculante. Una di quelle che si apre a metà, in modo tale che le spezie possano vagare libere oltre voi, oltre noi.
Ero ad Alimena a fare l’assessore, a ritirare il premio ad Agrigento. Ero dappertutto, ma non ero a casa. Non ero a guardare l’asfalto che ti ha accolto, piccola bimba.
Sono tornata per una manciata di giorni e per osservare la raccolta frenetica dei gelsi di fronte a casa nostra. A raccontartela tutta, prima di tornare a casa, ho fatto pure l’insegnante. Ma che cosa siamo quando non siamo ogni giorno? Che ne potevo sapere io di te? Presa come sono a sopravvivere nella giungla della campagna elettorale del mio paese e della vita.
E poi giro la chiave del nostro portoncino, quello a vetri, quello che tu ogni mattina sbatti con grinta quando vai scuola. E salgo e mi assale un buon profumo di zenzero, sul tuo pianerottolo decine di scarpe, la porta di casa tua aperta. Un canto che sa di preghiera, un pianto che odora di disperazione. Quello di mamma, quello dei tanti amici arrivati per pregare la madonna nella vostra meravigliosa lingua. Io non lo sapevo. Non ho avuto il tempo di occuparmi di una figlia di un Dio minore.
La Madonna di casa tua ha fiori che le cingono il collo, coloratissimi e finti. Tua zia mi ha accolto sul pianerottolo e mi ha chiesto di togliere le mie converse gialle. Mi ha sussurrato all’orecchio che stai soffrendo molto e che sono preoccupati per te. Tua sorella teneva tra le mani il vostro rosario e lo scorreva. Ho pianto, mica te lo posso negare. E non perché dal mio secondo piano pieno di saccenza ho mai saputo comprendervi, anzi. Io non mi annovero tra gli ipocriti che fanno finta che l’integrazione sia semplice e necessaria.
È stato complicato tra noi. Non con te piccoletta, ma con la vostra cultura si. Eppure stasera mi hanno accolta come se fossi una di voi, mi hanno infilato una coroncina tra le dita e mi hanno chiesto di pregare, di farlo per te. Per Zeus che tutto guarda, il dolore annulla le distanze. Torna tra noi ragazzina che il raso dei tuoi vestiti la domenica manca come l’aria. Torna, perché Palermo ha bisogno della sua complessa diversità.
Leda, mannaggia a te, non pregavo da anni io. Dicono che non hai sentito le sirene di questa città violenta mentre attraversavi la strada, dicono tante cose, ma io non riesco a sentire nulla. Nulla.
E intanto cantiamo la preghiera della speranza, tutti assieme, per queste scale che raccontano il sottoproletariato urbano di ieri e di oggi, le città che mutano, gli spazi che cambiano. E tu che appartieni a questa Palermo e che vivi in poco più di 50 mq, adesso fallo per noi. Prova a vivere e a tornare ad amare, fallo con la forza di chi ancora ha tanto da fare e da dare.
Però ti devo dire grazie per avermi permesso oggi di aprire la vita all’umiltà della preghiera. Ho tolto le scarpe, mi sono messa in ginocchio e sono stata con voi, accanto a voi. Adesso fai in modo di ritornare a vivere.