Palermo rende omaggio al generale Dalla Chiesa, uomo simbolo della lotta alla mafia.
Quarantadue anni fa, il 3 settembre 1982, in via Isidoro Carini a Palermo la mafia uccideva il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di polizia Domenico Russo. Questa mattina l’anniversario è stato ricordato con minuto di silenzio e la deposizione di corone di alloro. A rendere omaggio alle vittime dell’eccidio, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Presenti, fra gli altri, il sindaco di Palermo Roberto Lagalla, il procuratore capo Maurizio De Lucia, il presidente della Regione Siciliana Renato Schifani, il presidente dell’Antimafia regionale Antonello Cracolici, il prefetto Massimo Mariani, i figli Nando e Simona Dalla Chiesa e altre autorità civili e militari.
Una serie di eventi, alle 9.30 un momento commemorativo nel luogo della strage con deposizione di corone d’alloro da parte delle autorità civili e militari. Alle 10, nella cattedrale di Palermo, Messa officiata dall’arcivescovo Corrado Lorefice e, a seguire, commemorazione con interventi delle autorità.
Successivamente, presso il cippo commemorativo dedicato al generale in via Vittorio Emanuele, su iniziativa del Comando Legione carabinieri Sicilia, l’omaggio floreale da parte dei bambini dei quartieri a rischio di Palermo. Presente, in rappresentanza del governo, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi.
“Sul fatto che la legge contro le associazioni di stampo mafioso sia stata approvata tardivamente non manca una certa rabbia, ma il fatto in sé che sia stata approvata è anche una vittoria di mio padre“. Così Nando Dalla Chiesa, figlio del generale assassinato da Cosa nostra nel 1982, durante la cerimonia commemorativa in via Carini, a Palermo.
“Difficile dire se un’approvazione precoce avrebbe portato a qualcosa di diverso – continua Dalla Chiesa – Spesso mi colpisce il coinvolgimento dei miei studenti su questa vicenda, anche a quarant’anni di distanza“.
“Sapevamo perfettamente la situazione di pericolo e, soprattutto d’isolamento, in cui mio papà era stato lasciato dalla politica del tempo. Eravamo consapevoli ma per me che ero sua figlia era invincibile ed ero convinta che anche in quella situazione così complessa ce l’avrebbe comunque fatta“. Lo ha detto Simona Dalla Chiesa, figlia del generale.
“Via Carini è un luogo simbolo di Palermo e segna un momento terribile sia per la città che per l’Italia, con la perdita di una delle figure più rappresentative del Novecento che ha combattuto il terrorismo e la mafia e ha insegnato a farlo a chi è venuto dopo di lui“. Lo sottolinea il procuratore capo di Palermo, Maurizio De Lucia a margine della 42esima commemorazione per la strage di via Carini.
“Oggi il metodo Dalla Chiesa continua a essere evocato e trova applicazione ampia in tutte le Forze dell’Ordine – aggiunge De Lucia – Un pezzo della storia d’Italia è fatto di momenti altalenanti, con attacchi di mafia e terrorismo e risposte frammentarie dello Stato, ma penso che almeno dal 1992 l’azione di continuità dello Stato contro il crimine organizzato di tipo mafioso ha il carattere della costanza: significa che per fortuna qualcosa è cambiato“.
“In ultima analisi la mafia è una sorta di Olimpo nel quale le varie divinità alternano le loro vicende con esiti cangianti. Se qualcuno osa ribellarsi al dio di turno, esplode il brivido del vero potere: togliere la vita, nei modi che lui decide. Può saltare una macchina piena di tritolo, può sopraggiungere un agguato micidiale, può essere soffocato il pianto di un bimbo nel cemento, può venire impiccata colei che era fiera di avere una vita nel ventre e non sapeva che i veri proprietari della vita sono gli dei dell’Olimpo. La vita appartiene agli dei della mafia, di ogni mafia“. Lo ha detto l’arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice in cattedrale nella messa officiata per commemorare le vittime della strage di via Isidoro Carini. Secondo Lorefice la mafia “trova il suo miglior humus nella camaleontica postura dei colletti bianchi, sull’asse della commistione tra ricchezza e potere. Nell’Olimpo mafioso esiste un vocabolario altro, dove cerchi la parola ‘crudeltà’ e trovi ‘vittoria’, cerchi ‘giustizia’ e trovi ‘vendetta’, cerchi ‘un favore’ e trovi ‘asservimento’. Senza processo: “non avrai altri dei all’infuori di me”. Bramare, ostentare predare, arricchirsi, uccidere, schiavizzare, torturare: queste le beatitudini dell’Olimpo mafioso“. “Ecco perché – ha aggiunto – i suoi tentacoli sono, e rimangono, pervasivi e invasivi: il dio mafioso è lì dove ritiene di potersi nutrire. Il ‘regno dei cieli’ per lui non è fatto di segni e parole, bensì di dominio e di soldi. Tanti soldi. Solo soldi, come icona del regno e del potere. E il sangue degli ‘infedeli’ che non si assoggettano, tanto sangue, feconda e rimpingua i profitti per nuovi investimenti. Ecco dunque il grande delirio: “sono io, siamo noi i padroni della vita e della morte – prosegue l’arcivescovo – Lo Stato? Per il dio della mafia è un’entità incapace, corruttibile, impotente, di fronte alla quale ci si può permettere non solo la scarica di adrenalina che dà il tendere un agguato o far saltare in aria un’auto ma anche il brivido superbo di cercare collateralismo, intese, oltre che passeggiare per le vie di Palermo, da ricercato da tutti ma invisibile a tutti. La vita di un dio mafioso ha un copione preciso: mi faccio vedere quando voglio, ci sono e non ci sono, ho le chiavi del regno. Il Dio che nel suo Figlio unigenito fattosi carne come noi, morto e risorto per amore, traccia vie di redenzione e libertà e chiama altri e altre, a tracciare vie di riscatto nelle città umane ancora infestate dal male. Alla maniera di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Emanuela Setti Carraro, di Domenico Russo. Come hanno fatto loro“.