Tra le molte considerazioni e notizie circolate, più o meno a sproposito, in merito alle polemiche sul trasferimento alla mostra palermitana dell’Annunciazione del Bellomo di Siracusa, c’è pure quella che il dipinto sarebbe dotato di una “teca microclimatizzata”, che avrebbe dovuto accompagnare l’opera a Palazzo Abatellis per non pregiudicarne le già delicate condizioni conservative.
Premesso che è singolare che la verifica sia stata commissionata solo a movimentazione dell’opera già fatta, è stato chiesto al Centro per il restauro di verificare le caratteristiche tecniche di questa “teca”. In realtà bastava contattare, come ha fatto chi scrive, il suo progettista, l’architetto Luigi Messina, oggi al Polo per i siti museali di Catania, direttore del Bellomo all’epoca della realizzazione di questo supporto al dipinto. Era il 2009 e a breve si sarebbe dovuto inaugurare il riallestimento del museo.
Quella che segue è una testimonianza diretta, perché allora mi ritrovavo in visita delle sale per un articolo in anteprima su “il Giornale dell’Arte”. Proprio per la sala di Antonello non era stata ancora trovata una soluzione definitiva. Il direttore era in cerca di un’alternativa a quella scontata di appendere il dipinto alla parete. Voleva mettere in valore le qualità spaziali di quella straordinaria fuga di stanze facendole dialogare con la spazialità reale del salone catalano del Bellomo, con le eleganti bifore e trifore. L’effetto ricercato era quello che l’ambiente reale costituisse una prosecuzione di quello fittizio.
Una contestualizzazione non pedissequa, ricercata, in linea con il progetto museologico di Francesca Campagna Cicala, con l’aggiunta solo di qualche elemento, come il Piatto di maiolica a lustri metallici di tipo ispano moresco del XV secolo che richiama il vaso di maiolica blu di Malines dipinto nella scena, o il Libro d’Ore miniato, di ignoto fiammingo del XVI sec., aperto alla pagina con l’Annunciazione, allusivo agli elementi ponentini di cui è permeata l’opera di Antonello. La rarefazione delle opere, la strategia di non creare troppe interferenze visive nel vasto salone (ci sono solo altre due sculture di Domenico Gagini e la lastra tombale di Giovanni Cabastida) favorisce un momento di profonda concentrazione sui valori del dipinto antonelliano.
C’era, però, il grave problema di non interferire con la straordinaria regia dell’ombra che era servita al Maestro del Rinascimento come elemento unificante di tutta la composizione. Così come lo vedevo, di fronte a me, il quadro era, invece, compromesso nella sua leggibilità dall’illuminazione naturale proveniente dalla corte del palazzo. È anche da queste riflessioni all’epoca condivise con l’allora direttore Messina che è maturata l’idea di progettare per il dipinto quella che impropriamente viene chiamata “teca”, mentre si tratta di un supporto espositivo che non serve affatto al controllo microclimatico dell’opera, ma esclusivamente a risolvere questi problemi espositivi, legati alla corretta fruizione dell’opera da parte del visitatore. Oltre a garantirne un’adeguata protezione. Nel sistema antieffrazione, dotato di una schermatura che dista qualche decina di cm dal supporto col dipinto, è stato previsto un alloggiamento per i faretti che garantiscono un’illuminazione bilaterale dell’opera, che ne ottimizza la lettura. Semmai, questo sistema espositivo, non sigillato, perché appunto non controlla il microclima, se consente una ventilazione adeguata, d’altra parte richiede una manutenzione periodica per il fattore polvere.
L’unica teca microclimatizzata è quella dell’Antonello del Mandralisca. Ma lì sono urgenti interventi strutturali importanti sull’edificio per garantire buone condizioni conservative alle opere. Al Bellomo, invece, è in funzione un impianto di climatizzazione che non richiede, appunto, altri accorgimenti, se non quelli di garantire un’ottimale illuminazione all’opera e di proteggere il dipinto dal rischio di atti vandalici o anche solo di incauti ravvicinati accostamenti da parte dei visitatori.