Tra la “trattativa Stato-Mafia” e il processo a suo carico per “induzione indebita” (che si svolge al Tribunale di Milano) Roberto Maroni ha scelto l’aula bunker di Palermo. Il Pm milanese Eugenio Fusco non l’ha presa bene: “è stato il suo avvocato a indicare ai giudici palermitani la data in cui essere sentito“. E la data indicata ai giudici di Palermo dal legale di Maroni coincideva con la convocazione davanti alla Quarta sezione del Tribunale di Milano, dove il governatore della Lombardia è, appunto, imputato.
Code polemiche a parte, dal racconto di Maroni in aula bunker arrivano spunti interessanti. La sua deposizione – all’udienza del processo sulla trattativa Stato-mafia che si svolge nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo – è cominciata con la proiezione di una sua intervista, rilasciata nel 1994 al Tg3. In quella intervista, Maroni si oppose duramente a un decreto legge su alcune questioni di giustizia, presentato dal governo Berlusconi nel 1994, perché avrebbe penalizzato la lotta alla mafia. “Notai subito – ha detto – delle differenze rispetto a quello che mi era stato mostrato nei giorni precedenti soprattutto sull’applicabilità di misure cautelari nell’ambito di procedimenti per reati come la corruzione e concussione“.
Maroni ricorda anche di aver fatto esplicito riferimento alle conseguenze negative che il decreto avrebbe avuto nella lotta alla mafia. “Mi ero consultato – ha aggiunto – sia con il procuratore di Palermo, Giancarlo Caselli, che mi disse che sarebbe stata più difficile la lotta alla mafia con quel decreto e alcune indagini sarebbero state impossibili, che con il capo della polizia Vincenzo Parisi che concordavano con me. Chiesi al gruppo della Lega in parlamento di non emendare il decreto e di non votare la fiducia. Comunque quel decreto venne dopo pochi giorni ritirato. Il governo votò che non c’erano i requisiti di urgenza e decadde. Io ero pronto a dare le dimissioni da ministro. Su quanto dissi nell’intervista, nessuno mi contestò che avevo detto cose false“.
Altro tema della deposizione di Maroni è stato l’avvicendamento al Sisde in quegli anni. “Quando ero ministro dell’Interno – ha spiegato – avevo avuto modo di leggere una serie di fascicoli del Sisde che riguardavano di fatto un’attività di dossieraggio nei confronti di esponenti dei vari partiti politici tra i quali uno sul mio predecessore al Viminale: Nicola Mancino. Ritenni di sollevare pubblicamente il caso anche con un intervento specifico in Senato“.
Così Maroni decise di rimuovere Domenico Salazar che era direttore del Sisde. “Diversi nomi – ha spiegato – mi vennero poi segnalati per sostituirlo sia dalla presidenza del Consiglio che per il tramite del capo della polizia Vincenzo Parisi. Tra questi nomi c’era anche Mario Mori. Scelsi però autonomamente di proporre il generale dei carabinieri Gaetano Marino. Non mi era stato segnalato da palazzo Chigi e ciò ebbe un’influenza decisiva nella mia scelta di sparigliare le carte rispetto alle prassi e alle dinamiche sostanziali delle precedenti nomine e gestioni. Mi imposi dicendo che altrimenti mi sarei dimesso e il governo cadeva“.