Non usa mezzi termini la Procura per definire le motivazioni della sentenza con cui è stato assolto Calogero Mannino, imputato di minaccia a corpo politico dello Stato nella tranche in abbreviato del processo Stato-mafia. L’appello della Procura è stato depositato questa mattina ed è stato vistato dal Procuratore di Palermo Francesco Lo Voi e porta le firme del procuratore aggiunto Vittorio Teresi, dei pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. “La sentenza impugnata, ad una prima analisi generale, appare percorsa da un singolare furore demolitorio – scrivono i pm nell’appello – teso non soltanto alla analisi della posizione dell’imputato, delle sue condotte e del suo apporto causale nella determinazione dell’evento posto a base del capo di imputazione, ma sostanzialmente determinato a smantellare la ricostruzione dei fatti prospettati dall’accusa con argomentazioni spesso prive di reale motivazione e, perciò, apodittiche”.
La Procura sottolinea anche che: “La singolare durata di gestazione dell’elaborato (un anno circa dal giorno della lettura del dispositivo) poteva apparire giustificata dalla complessità determinata dalla necessità di enucleare la sola posizione processuale di Mannino dal contesto generale del processo originario, nel quale le posizioni degli imputati sono costruite nei capi di imputazione con una reciproca interdipendenza e in stretta connessione. Ma, invero, le aspettative maturate durante la lunga attesa sono state tradite da una motivazione che è risultata estremamente lacunosa, piuttosto confusa nella ricostruzione dei fatti e priva di argomenti di valutazione critica realmente collegati alle emergenze processuali prospettate dall’accusa”.
Per la Procura la motivazione del gup che assolse il politico è “incongruente”. “La prima, macroscopica, incongruenza si coglie nella palese contraddizione logica tra la motivazione (interamente volta a smantellare la sussistenza del fatto) e – dicono i pm – la formula assolutoria prescelta (per non aver commesso il fatto come ascrittogli), formula che evidentemente postula il convincimento, da parte del giudicante, che, pur in presenza del ‘fatto di reato’ così come contestato, è risultata incompleta la prova del consapevole contributo causale del singolo imputato alla realizzazione di quello stesso fatto”.
La seconda osservazione attiene al fatto che la sentenza, di circa cinquecento pagine totali, “si riduce, qualora se ne individuino le sole parti effettivamente valutative, a poco più di venti pagine. Tutto il resto della sentenza si esaurisce in una asettica trascrizione di altre sentenze emesse da altre autorità giudiziarie, di verbali integrali di interrogatorio di (soltanto alcuni) collaboratori di giustizia, dell’intera trascrizione della requisitoria del pm, che il giudice spesso riporta senza alcun tipo di valutazione critica (ovvero limitandosi a considerazioni estemporanee e sganciate da ogni riferimento critico concreto). La sentenza, in altri termini, è sistematicamente e completamente permeata del vizio della motivazione apparente“.
Oltre alla metodologia utilizzata, la Procura di Palermo, nell’atto di appello, ha attaccato il gup Marina Petruzzella anche sulle valutazioni di alcuni testimoni nel processo a Calogero Mannino. I pm hanno contestato l’“inevitabile condizionamento mentale” del pentito Giovanni Brusca che, a dire del giudice, “subì un martellamento, sempre sugli stessi episodi“.
“Scompare – dicono i pm – qualsiasi accenno alla valutazione della credibilità e della attendibilità intrinseca ed estrinseca del dichiarante, che viene sostituita con una analisi psicologica del soggetto“.
Anche su Massimo Ciancimino “le conclusioni valutative del giudice appaiono fortemente lacunose”. “In sostanza – sostengono i pm – il giudice ha ritenuto di dovere eliminare dal raggio delle prove concretamente utilizzabili tutte intere le dichiarazioni di Massimo Ciancimino.
Il secondo errore, forse ancora più rilevante, è costituito dalla espressione, invero quasi sprezzante, con la quale il giudice ha marchiato il papello come frutto di una ‘grossolana manipolazione’ “. I pm attaccano anche la parte dedicata alla reticenza di Nicola Mancino (accusato di falsa testimonianza nel troncone principale). Il giudice la riconduce “a un suo stato d’animo di timore“. “Una giustificazione del genere – ribattono i pm – ove condivisa, comporterebbe l’abrogazione di fatto nell’ordinamento giudiziario italiano dei reati di falsa testimonianza e di favoreggiamento, visto che il motivo sotteso a questi reati è sempre la volontà di occultare informazioni per paura di ripercussioni processuali per sé o per altri”.