All’indomani dell’assassinio del prefetto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si scatenò una campagna contro la Sicilia. Non mancarono le crudeli vignette di Forattini, mentre Indro Montanelli individuò nello statuto regionale il problema principale da affrontare chiedendone l’abolizione.
Non mancarono le polemiche sul piano politico, anche molto aspre, nei confronti dei dirigenti della Democrazia Cristiana, ricordando la fredda accoglienza al generale di molti di loro. Tornarono alla mente le polemiche con il presidente della Regione Mario D’Acquisto sui poteri speciali che il prefetto chiedeva ritenuti dal presidente un attacco alle prerogative statuarie della Sicilia e quelle con il sindaco di Palermo Nello Martellucci che in occasione della commemorazione a Ficuzza del colonnello Russo aveva dichiarato: “Palermo non ha bisogno di un prefetto di ferro……io non conosco inquinamenti al Comune di Palermo, eppure ho gli occhi acuti”. Anche i carabinieri hanno occhi acuti fu la pronta risposta del generale.
Seguirono poi le dure dichiarazioni del figlio Nando che indicò in alcuni esponenti della Dc i mandanti dell’assassinio del padre.
Molto si detto e scritto sui motivi che spinsero Cosa Nostra a questo atto terroristico un po’ meno si è riflettuto su cosa significò allora la presenza di Dalla Chiesa in Sicilia e i perché sulla sua morte.
La sua nomina, infatti, aveva riaperto la contrapposizione tra il Nord che, anche con toni spesso razzisti, chiedeva misure repressive ricordando le gesta del prefetto Cesare Mori. Un altro pezzo di Sicilia non indifferente temeva, invece, proprio il ritorno dei metodi di Mori che non intaccò l’alta mafia ma colpendo duramente la manovalanza mafiosa ma anche persone che non avevano nulla a che fare con la mafia ma vivevano ai margini della legalità per la condizione di indigenza.
Si alimentò così l’ostilità, se non l’odio verso lo Stato, che la mafia si affrettò subito a strumentalizzare erigendosi a difensore della giustizia riproponendo quella che viene definita “l’opposizione mafiosa” allo Stato, in nome di una Sicilia sempre sfruttata , vilipesa e perseguitata.
Il prefetto Dalla Chiesa si trovò così preso tra due fuochi, da un lato la “opposizione mafiosa” verso lo Stato, la contestazione verso le responsabilità di Roma nei confronti della Sicilia e dall’altra le forti sollecitazioni che venivano dall’opinione pubblica nazionale, fomentata dalla grande stampa del nord, di usare il pugno di ferro verso i siciliani ritenuti in larga parte collusi con la mafia.
In pratica avrebbe dovuto riprendere l’azione del prefetto Mori che in verità prima di lui si era distinto nel 1868 il generale Medici anche lui nominato prefetto di Palermo ma anche comandate militare che represse con durezza la piccola mafia mentre le alte sfere continuarono indisturbati ad esercitare il loro potere. Per molti studiosi la questione mafia si pose, infatti, in modo più acuto dopo l’adesione, per altri annessione, della Sicilia al nuovo Stato unitario, in cui la mafia intrecciò subito i rapporti con le nuove strutture statali e le rappresentanze politiche ponendosi come forza di mediazione e controllo sociale, non trascurando però all’occorrenza di sostenere “l’opposizione” al nuovo centralismo statale.
Emanuele Macaluso da questo punto di vista leggeva la rivolta del 1866 come l’opposizione mafiosa allo Stato unitario, ma aggiungeva che si poteva anche leggere come una ribellione contro i soprusi e le ingiustizie del nuovo Stato unitario.
L’opposizione mafiosa allo Stato si ripropone nel 1943 con la nascita del movimento separatista di Finocchiaro Aprile e la sua lotta di liberazione dal nuovo Stato che si stava formando ebbe l’appoggio della mafia che mise a sua disposizione il bandito Salvatore Giuliano.
Lo stesso movimento fondato da Silvio Milazzo, alla fine degli anni ’50, conteneva aspetti di opposizione mafiosa allo Stato e lo stesso Emanuele Macaluso, che di quella vicenda politica fu uno dei principali protagonisti, riconobbe che in un movimento di larga eterogeneità sociale non potevano mancare la presenza di alcune frange mafiose che sostennero Milazzo. Altri dissero , al contrario, che invece si era di fronte ad un grande movimento popolare, ad un sommovimento sociale contro uno Stato accentratore, vessatore che tollerava la mafia e impediva lo sviluppo della Sicilia.
La Storia della Sicilia è stata dunque caratterizzata dall’intreccio e dalla contrapposizione fra queste due anime, una costante del travagliato rapporto tra la Sicilia e lo Stato.
Carlo Alberto Dalla Chiesa avrebbe potuto muoversi sulla scia del generale Medici e Cesare Mori, ma egli rifiutò di seguire questa linea e si mosse con l’intento di colpire la mafia dalla testa e non dai piedi, se avesse seguito l’esempio di Medici e di Mori avrebbe avuto sicuramente i mezzi e i poteri che chiedeva e probabilmente non sarebbe stata necessaria la sua eliminazione.
Con Dalla Chiesa vi è stata, quindi, una svolta storica perché, cosi come il giudice Terranova, il procuratore Costa, il giudice Chinnici e poi Falcone e Borsellino e i tanti servitori dello Stato, al di là degli aspetti giudiziari, tutti si sono mossi contro “l’opposizione mafiosa” e sono diventati punto di riferimento per una battaglia, che ancora continua, per un nuovo ordinamento dello Stato, una bonifica degli apparati, un rinnovamento della politica. Ecco perché il 3 settembre è doveroso rinnovare la nostra gratitudine e riconoscenza a Carlo Alberto Dalla Chiesa.