Un reparto disorganizzato, in cui quasi nessuno aveva la competenza e la cultura medica per curare la povera Valeria Lembo, morta all’età di 34 anni, a Palermo, il 29 dicembre 2011, perché per errore le furono somministrati 90 milligrammi di Vinblastina, un farmaco chemioterapico potente e – in dosi eccessive – killer.
L’infusione di dieci volte superiore a quella prevista, che era di soli 9 milligrammi, fu fatta alla giovane mamma perché un medico specializzando scrisse 90 anziché 9, salvo poi – a cose fatte – cercare di metterci una pezza cancellando lo zero. La seconda sezione della Corte d’appello di Palermo deposita le motivazioni della decisione nel processo cosiddetto “di rinvio” dalla Cassazione, e rimarca il caos totale della divisione di Oncologia del Policlinico di Palermo.
Al centro della vicenda vi sono tre medici, a cui con la sentenza del 27 febbraio 2020 fu ridotta la pena, e un’infermiera professionale, Clotilde Guarnaccia, l’unica assolta, anche se fu lei a somministrare materialmente il potente e terribile medicinale necessario per la cura del linfoma di Hodgkin, la malattia rarissima che aveva colpito la donna, mamma di un bimbo che all’epoca della morte di lei aveva pochi mesi. La Guarnaccia eseguì un ordine, scrivono i giudici, e lo fece dopo essersi resa conto della dose eccessiva e dopo avere chiamato per conferma la dottoressa Laura Di Noto, che lealmente confermò la circostanza.
L’infermiera, dunque, non commise reato. La stessa Di Noto, che ha collaborato pienamente con i magistrati, secondo la Corte manifesta pentimento, “avvertendo evidentemente il peso della propria responsabilità”, scrive il consigliere Pietro Pellegrino, estensore della sentenza.
Lei e il medico specializzando che ordinò la dose dieci volte superiore, Alberto Bongiovanni, erano stati giudicati colpevoli già in Cassazione e per loro doveva essere solo rideterminata la pena. Una riduzione è stata decisa anche per l’ex direttore dell’unità oncologica, Sergio Palmeri. A lui però non vengono date attenuanti. Se Valeria Lembo morì, affermano i giudici, fu per la disorganizzazione e il caos: “Una volta messo al corrente del tragico errore” Palmeri portò avanti “tentativi di prendere tempo e di studiare strategie, non curative (purtroppo di fatto impossibili) della paziente, ma finalizzate alla sua deresponsabilizzazione”.