E allora riapriamo tutto. Parto da questa provocazione (provocazione, si badi: lo sottolineo per chi ha già il polpastrello incandescente che freme sulla tastiera) per commentare le immagini del week end, dalle code per mangiare la frittola a Ballarò a Palermo ai mercatini cittadini fino alle vie del centro storico affollate da chi ha deciso di godersi il sabato e la domenica per andare a fare una passeggiata, incurante dell’affollamento.
Certo, chi è rimasto a casa nelle ultime 48 ore deve essersela passata meglio, non fosse altro perché ha potuto godersi il pranzo nel focolare domestico, o un buon caffè seduto comodamente al tavolo, mentre chi ha optato per l’acquisto al bar ha dovuto obbligatoriamente scegliere l’opzione ‘da asporto‘: non proprio una situazione di relax.
Intanto, però, c’è chi i sacrifici li deve fare per forza. In Sicilia ristoranti, bar e pub stanno cercando di reinventarsi, tra le mille difficoltà delle normative anti-Covid. Hanno dovuto assistere al gioco al ribasso che li ha visti protagonisti loro malgrado: dalla chiusura alle 18, che per certe attività significava già di fatto lockdown – si pensi ai pub – si è passati alle maglie più strette del vestito arancione confezionato per l’Isola dal sarto di Roma.
La salute prima di tutto, ci mancherebbe. La domanda, però, è legittima: perché alcuni esercizi sì ed altri no? Si risponderà che un certo tipo di attività favorisce la convivialità e quindi l’assembramento: certo. Ma allora le scene che abbiamo visto nel week end? Le strade affollate, le code davanti a negozi o frittolari? Che la gente non abbia davvero compreso? Che ci si sia dimenticati delle ambulanze incolonnate? Che ci sia un senso di frustrazione diffuso a tal punto da non vedere quello che succede oggi – non tre mesi fa… oggi… – nelle terapie intensive?
Siamo tutti d’accordo che il momento storico richiama ad assunzioni di responsabilità da parte dei governanti e che, allo stesso tempo, nessuno di questi si era trovato a dover gestire una pandemia così aggressiva e tenace. Ma è proprio sulla parola ‘responsabilità’ che occorrerebbe soffermarsi, vero tabù del ventunesimo secolo.
A chi tocca assumersi le responsabilità di prendere scelte? E quando una scelta implica un sacrificio, a chi spetta il compito di ‘redistribuire’ questo sacrificio tra i vari settori della società? ovviamente alle Istituzioni, certo. Durante la prima ondata, almeno nelle dichiarazioni d’intenti, questa assunzione di responsabilità sembrava esserci stata – anche se i ritardi della cassa integrazione èsono stati sinceramente sinceramente inaccettabili -, mentre sembra che in questa seconda fase ci sia molta confusione: dpcm che si susseguono dall’alba al tramonto, le tante discussioni sulle gradazioni cromatiche delle regioni, i dubbi sulle disposizioni a volte non proprio chiarissime, la diversità di trattamento per i settori produttivi e le relative marce indietro (o relative fughe in avanti).
Servono scelte chiare, comprensibili e coerenti. Lasciare all’ambiguità interpretativa il rispetto delle disposizioni è pericoloso. Detto questo, va dato atto che da qualche parte bisognava pur iniziare, e nessuno ha la bacchetta magica. D’altronde gli stessi siciliani sembrano disorientati rispetto alle misure da intraprendere per limitare i contagi: il recente sondaggio de ilSicilia.it che proponeva una scelta tra il lockdown totale e il lockdown parziale ha avuto un risultato praticamente di parità, a dimostrazione che nemmeno sulle scelte più nette ci siano posizioni predominanti.
Insomma, l’incertezza governa questo momento storico. E di fronte all’incertezza l’unico principio guida da seguire è il principio di precauzione. Quello al quale deve fare riferimento ognuno di noi, secondo coscienza, secondo la propria responsabilità.