Carissimi
E’ possibile parlare male della propria città specialmente se questa si chiama Palermo?
Può un monologhista palermitano dichiarare l’amore per la propria città e subito dopo dichiarare che non ci vivrebbe mai?
Dove sta questa lesa maestà? È stato sempre facile dire “amo Palermo” ma è stato difficile distinguere a priori di quale Palermo si parlasse, la Palermo della movida, la Palermo del Teatro Massimo, la Palermo delle manifestazioni, la Palermo delle targhe commemorative, la Palermo del dolore e delle stragi, la Palermo residenziale o la Palermo di una perduta periferia?
La Palermo fatta di coloro che decidono che così può andare, la Palermo fatta di persone che decidono che te ne devi andare?
Come dare torto a chi per riuscire nel proprio lavoro e far valere il proprio talento è costretto a cercare altri lidi, a chi ha dovuto mangiare polvere e strisciare in casa propria per poi decidere di dover mangiare ulteriore polvere, ma poter fare affermare il proprio valore lontano da casa?
A costoro come posso condannarli se pur manifestando il loro grande amore per la propria città, alla fine trovano l’impopolare coraggio di affermare che non ci vivrebbero, perché purtroppo una cosa è nascere, una cosa è stare in una città, un’altra cosa è viverci, poiché la parola vivere è una parola che assume un significato impegnativo e forte, una volta rapportata in contesti come quello nostro.
Posso io, pertanto, da giudice estrapolando una frase da un contesto dire costui ha sbagliato ed è soltanto un ingrato, nel momento in cui dice che non vivrebbe mai in questa città?
Quante volte l’idiota di turno per nepotismo ha scavalcato e messo in fuga talentuose promesse?
Possiamo decidere che questa è una città meravigliosa, quante volte l’ho sentito narrata da coloro che si sono arrogati il frutto del mio e dell’altrui lavoro per riscuotere plauso e attribuirli ad un cambiamento?
Io sono tra coloro che hanno atteso un cambiamento, io sono tra coloro che hanno investito come ho detto più volte, in questa città, restando, sapendo di dovere combattere con armi scadute, ma molto spesso con un nemico invisibile, alcune volte vestito pure da amico, ma sono rimasto qua.
Non lo so se oggi questa scelta è dovuta al fatto che è diventato troppo tardi per andare via e fare le scelte diverse, ma non posso condannare chi ha dovuto trovare il coraggio di affrontare il dolore di tagliare le proprie radici, arrabbiato più di ogni altro, prima di vedere le folle sold-out riempire i teatri delle proprie scene professionali al passaggio del figliol prodigo in città.
Non c’è storia che tenga, non ci sono episodi atavici che possono giustificare questo nostro gap, ma soltanto subdole considerazioni di natura antropologica.
Poi c’è chi oggi è convinto che qualcosa sia cambiata, ma sono tutti coloro che approfittando della dabbenaggine, della speranza, della disperazione del proprio prossimo, si è proposto per cambiarne le sorti e altro non ha fatto che prendere la parte più allettante dei privilegi, diventare anche esso gattopardo per potere dire sì, così va bene, così rimaniamo a bocce ferme, l’importante è che nulla cambi perché tutto per me rimanga come prima e siccome prima stavo bene, non vedo perché devo mettere a repentaglio tutto ciò.
Questi ultimi, è palese, non ce la fanno, non perché non hanno la bacchetta magica o non hanno le qualità, ma perchè non c’è nessuno che realmente chieda il conto del loro operato.
Se amare la propria città è soltanto l’ambizione di passare dall’altro lato della barricata, qualunque tipo di ideologia oggi è realmente fallita e sepolta.
Si, si può fare monologhi recitando lo stesso “spettacolo” piacione e accattivante, vivendo dietro le porte del potente di turno e restando come “re dello stagno” e convincersi di essere “artista di successo”, ma si può pure andare al festival dei festival e approfittare dell’ora tarda, sputtanando l’ipocrisia del pubblico a partire da chi occupa le file delle autorità, vomitandogli di sopra i loro difetti e ricevere un imbarazzato applauso mentre regala loro una vagonata di dubbi da portarsi appresso nei propri sogni notturni.
E’ una scelta e non uno stile, ma invece dello “zerbinismo” personalmente apprezzo di più chi anche in modo antipatico, facendosi mettere all’angolo da tutti coloro che vivono sul carro del vincitore, chiunque esso sia, magari ogni mattina si alzano e dicono che il re è nudo.
Un abbraccio, Epruno.