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L'intervista

Eleonora Rimolo, critico letterario e poeta, ci racconta la sua passione per la scrittura

sabato 26 Agosto 2023
Eleonora Rimolo_Ph. Daniele Ferroni

«La bellezza nella letteratura è l’abisso: quando si percepisce di esserci entrati leggendo, studiando, scrivendo, lì c’è la bellezza. La bellezza nella conoscenza è lo stupore: quando si avverte un senso di gioiosa curiositas e di sana fama di sapere, lì c’è la bellezza.» Eleonora Rimolo

Eleonora Rimolo_Ph. Daniele Ferroni

Ciao Eleonora, benvenuta e grazie per aver accettato il nostro invito. Come ti vuoi presentare ai nostri lettori che volessero sapere di te quale critico letterario, poeta, scrittore, saggista e Assegnista di Ricerca di Letteratura Italiana?

La passione per la scrittura poetica mi accompagna fin da quando ero piccola, così come la ricerca letteraria – la lettura è sempre preliminare ad ogni buona scrittura (buona quantomeno nelle intenzioni). Ho sempre prediletto la poesia e la narrativa novecentesche e ultracontemporanee e la mia ricerca accademica è iniziata sotto lo stesso segno con una tesi di dottorato che partendo dal personaggio di Lidia delle riscritture oraziane contemporanee ha tentato di ricostruirne il profilo dalle sue origini latine, passando per il Seicento e l’Ottocento, fino a Tabucchi e Tripodo. Attualmente mi occupo anche di satira settecentesca – pochi mesi fa ho pubblicato una edizione introdotta e commentata dei Sermoni di Gasparo Gozzi e quest’anno approfondirò il monumentale Cicerone di Passeroni. Vita e poesia dunque coincidono, e questa la ritengo una inestimabile fortuna.

Chi è invece Eleonora Donna al di là della sua professione e delle sue passioni letterarie? Cosa puoi raccontarci di te e della tua quotidianità oltre il lavoro?

Sono una donna qualunque: amo prendermi cura delle persone che amo, dei miei animali domestici, della mia casa – amo custodire il mio nido, insomma, e mi piace occupare il tempo libero con il volontariato. Una normalità quasi imbarazzante.

Qual è il tuo percorso accademico, formativo, professionale ed esperienziale che hai seguito e che ti ha portato a fare quello che fai oggi nel vestire i panni di critico letterario, poeta, scrittore e Assegnista di Ricerca di Letteratura Italiana?

Sono laureata in Lettere classiche e in Filologia Moderna. Ho conseguito un dottorato in Studi letterari e oggi sono Assegnista di Ricerca, dopo aver da poco conseguito l’abilitazione come professore associato in Letteratura Italiana Contemporanea. Un percorso sul quale non ho mai avuto alcun tentennamento e alcun dubbio, fin da quando frequentavo le scuole elementari e tornando a casa giocavo a fare la maestra.

Come nasce la tua passione per scrittura, per i libri, per l’editoria, per l’insegnamento e per il lavoro che fai oggi? Chi sono stati i tuoi maestri e quali gli autori che da questo punto di vista ti hanno segnato e insegnato ad amare i libri, le storie da scrivere e raccontare, la poesia, e il variegato mondo della letteratura e del sapere?

Nasce in maniera del tutto naturale, all’interno di un humus domestico favorevole poiché non ho mai avuto grosse preoccupazioni di ordine concreto e dunque questa propensione si è potuta esprimere nel migliore dei modi possibili. L’inclinazione precede i buoni maestri, che pure ci sono stati durante il mio percorso scolastico (forse non tanti quanti ne meriterebbero gli studenti) e poi nel mondo della poesia, nel quale sono entrata poco più che diciottenne e dove ho incontrato non solo maestri ma anche compagni di viaggio preziosi oggi amici oltre che colleghi di penna. Insegnare ad amare d’altronde è facile, quando si è predisposti a farlo.

«Ma, parliamo seriamente, a che serve la critica d’arte? Perché non si può lasciare in pace l’artista, a creare, se ne ha voglia, un mondo nuovo; oppure, se non ne ha, ad adombrare il mondo che già conosciamo e del quale, immagino, ciascuno di noi avrebbe uggia se l’Arte, col suo raffinato spirito di scelta e sensibile istinto di selezione, non lo purificasse per noi, per dir così, donandogli una passeggera perfezione? Perché l’artista dovrebbe essere infastidito dallo stridulo clamore della critica? Perché coloro che sono incapaci di creare pretendono di stimare il valore dell’opera creativa? Che ne sanno? Se l’opera di un uomo è di facile comprensione, la spiegazione diviene superflua… » (Oscar Wilde, “Il critico come artista”, Feltrinelli ed., 1995, p. 25). Cosa ne pensi delle parole che Oscar Wilde fa dire ad Ernest, uno dei due protagonisti insieme a Gilbert, nel dialogo di questa sua opera? Secondo te, nella arti in generale, e quindi anche nell’arte della letteratura, serve il critico? E se il critico d’arte, come sostiene Oscar Wilde, non è capace di creare, come fa a capire qualcosa che non rientra nelle sue possibilità, nei suoi talenti, ma che può solamente limitarsi ad osservare come tutti gli esseri umani? Qual è da questa provocatoria prospettiva la tua posizione?

Partendo dal presupposto che non tutti i critici letterari sono incapaci di creare (conosco tantissimi scrittori perfettamente in grado di essere anche degli ottimi critici) e che questa affermazione di Wilde decontestualizzata (come troppo spesso accade nell’epoca delle sintesi e delle approssimazioni) rende popolare la convinzione che lo scrittore basti a se stesso per autocelebrarsi e autostoricizzarsi, con conseguenze catastrofiche sull’ego dei letterati “improvvisati” e “incoscienti”, certamente il critico serve per una serie di motivi ben sintetizzati da Mario Barenghi nel volume Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti. La critica letteraria sana è una bussola fondamentale per orientarsi nell’analisi approfondita dei testi: dall’estetica crociana, passando per la psicoanalisi, l’antropologia fino allo strutturalismo, questa disciplina si è sempre ampliata, rinnovata e posta delle sfide finalizzate alla comprensione quanto più globale possibile di un’opera per restituirne il valore nella sua intera complessità. Dunque per scavare all’interno della letteratura per portarne alla luce l’essenza, spesso celata, che è uno strumento per vivere la vita, e inoltre dibattere su questa stessa essenza (la critica non sarà mai oggettiva) per tenere vivo il fuoco dell’opera stessa. Naturalmente, questo non significa che oggi la critica letteraria non viva un periodo di crisi: lo scollamento profondo tra la critica accademica e la critica militante, il proliferare di discorsi critici parassitari tutti legati gli uni agli altri e dunque ridondanti e respingenti rispetto all’opera (Steiner ne parla in Vere presenze), la difficoltà per il lettore di discernere tra i diversi contenuti critici fruibili online, riaprono le antiche ferite del dibattito secolare sull’utilità della critica letteraria e chiedono una risposta. Per quanto mi riguarda, avendo esperienza di critica militante e di critica accademica, ciò su cui cerco di porre l’accento è la ricerca di una rinnovata sinergia tra le due discipline, ai fini di una canonizzazione più limpida e chiara soprattutto della letteratura contemporanea.

In Italia ogni anno si pubblicano tra i 75 e i 80 mila nuovi titoli, con le circa 2000 Case Editrici attive nel nostro Paese (dati del 2021, fonte: https://cepell.it/dati-aie-editoria-nel-2021-16-per-romanzi-e-saggistica-audiolibri-37/). La media ponderata di vendita di ogni nuovo titolo è di circa 50 copie con oltre il 30% dei titoli che non vende neanche una copia; mentre chi legge effettivamente tutta l’opera letteraria acquistata non supera il 10%, il che vuol dire che delle 50 copie vendute solo 5 copie vengono effettivamente lette da chi acquista in libreria o nei distributori online. In Italia il numero di lettori assidui, che acquistano e leggono almeno 2 libri al mese, non supera il milione di abitanti. Partendo da questo dato numerico, che per certi versi fa impressione e ci dice chiaramente che in Italia non si legge o si legge pochissimo, secondo te cosa si dovrebbe fare per migliorare questa situazione? Cosa dovrebbero fare gli editori, gli autori, ma anche le agenzie letterarie, i critici letterari, e in generale gli addetti ai lavori, per far aumentare il numero dei lettori e degli appassionati ai romanzi, ai racconti, alle poesie e alle storie da leggere?

Credo che non debbano fare nulla, se non preoccuparsi di essere più onesti con se stessi e con i possibili lettori e quindi evitare di produrre e far circolare prodotti letterari scadenti solo per il gusto egoistico di “pubblicare”. Questo ovviamente non risolverebbe comunque il problema, ammesso che possa essere arginata questa deriva, che per me ha radici profonde e inestirpabili nella stessa natura umana, tendenzialmente vanitosa ed egotica (a proposito di satira del Settecento, Gozzi lamentava la stessa situazione editoriale attuale – eccessiva proliferazione di libri inutili rispetto al numero dei lettori). Credo che la causa del drastico calo dei lettori oggi sia frutto di un cambiamento antropologico inarrestabile, dovuto in parte alla dipendenza comune dai social e dalla fruizione di contenuti multimediali immediati che da un lato ci permettono di “condividere” sempre qualcosa con il mondo dandoci l’illusione di non essere soli, e dall’altro ci disabituano allo sforzo mentale di concentrare la nostra attenzione sul contenuto-libro, che di certo non si consuma in uno swipe. Infine, penso che l’aumento generale della povertà – anche nel mondo occidentale, che pur ponendosi problemi ben diversi dai Paesi ancora in via di sviluppo, oggi vive una crisi economica di non poco conto – spinga l’uomo medio ad avere altre preoccupazioni rispetto al nutrimento della propria anima tramite la fruizione (a pagamento per giunta) dell’arte in generale.

«In una società in cui le parole sono usate anzitutto nel loro valore emotivo, gli uomini non sono liberi. Sono schiavi spesso per opera del demagogo che sa usare con astuzia i valori connotativi delle parole … altre volte si è schiavi per una sorta di occulto patto sociale per cui certi valori, che è scomodo sottoporre a critica, sono protetti da parole magiche, che istintivamente connotano “positività”. Allora tutte le parole che connotativamente vi si oppongono appaiono alonate di terribile e ampia “negatività”. Quando una società è prigioniera di questi tabù linguistici, chi cerchi di muovervisi criticamente è soggetto a esperienze tremende, prigioniero della maglia di parole da cui sarà soffocato, personaggio kafkiano che infine non riuscirà più a comprendere quale sia il potere che lo sovrasta.» (Umberto Eco, “Sotto il nome di plagio”, Bompiani ed., Milano, 1969). Cosa ne pensi di questa lucida analisi di Umberto Eco che fece nel lontano 1969 e oggi quanto mai attuale? Qual è secondo te oggi il valore della parola e quali i rischi terribili nell’usarla criticamente contro il cosiddetto mainstream?

Una delle definizioni del ruolo della parola a cui sono più affezionata appartiene al filosofo greco Gorgia: La parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti sia a calmare la paura, sia ad eliminare il dolore, sia a suscitare gioia, sia ad aumentare la pietà. Da qui si evince la complessità del ruolo della parola che, in una società come la nostra, connotata dalla liquidità, non ha parametri di giudizio totalmente stabili, data la crisi dell’individuo e della realtà. La confusione del reale genera confusione di pensiero, dunque confusione del linguaggio: le parole tendono a perdere il loro originario significato e capita che vengano usate in maniera impropria manipolando la realtà oggettiva e persuadendo “propagandisticamente” gli interlocutori. Le parole dovrebbero sempre corrispondere ai fatti, e il diritto di libera espressione dovrebbe essere garantito in modo sacrosanto: ad esclusione dei linguaggi che inneggiano esplicitamente alla violenza contro un individuo o una categoria, per me ogni opinione, anche se minoritaria o “fuori moda”, ha il diritto di essere espressa senza incorrere in sgradevoli censure. Andare oggi contro il mainstream significa essere principalmente molto coraggiosi: ogni pubblica affermazione è facile che diventi oggetto di scherno, di trivializzazione, di emarginazione. Inutile aggiungere che i social hanno esacerbato l’intima propensione di ciascuno di sovrastare l’altro con le proprie ragioni, spingendo tutti contro tutti in una battaglia all’ultimo post che non produce un dibattito sereno ma una lotta di forza dove a soccombere solitamente è chi non gode dell’appoggio della maggioranza.

Eleonora Rimolo

«… mi sono trovato più volte a riflettere sul concetto di bellezza, e mi sono accorto che potrei benissimo (…) ripetere in proposito quanto rispondeva Agostino alla domanda su cosa fosse il tempo: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so.”» (Umberto Eco, “La bellezza”, GEDI gruppo editoriale ed., 2021, pp. 5-6). Per te cos’è la bellezza? La bellezza letteraria e della scrittura in particolare, la bellezza nella letteratura, nella poesia, nell’arte, nella cultura, nella conoscenza… Prova a definire la bellezza dal tuo punto di vista. Come si fa a riconoscere la bellezza secondo te?

La bellezza nella letteratura è l’abisso: quando si percepisce di esserci entrati leggendo, studiando, scrivendo, lì c’è la bellezza. La bellezza nella conoscenza è lo stupore: quando si avverte un senso di gioiosa curiositas e di sana fama di sapere, lì c’è la bellezza. La vera domanda è come difendere la bellezza dall’abbrutimento del reale, col quale i migliori scrittori e filosofi sono chiamati a combattere tutti i giorni.

«La lettura di buoni libri è una conversazione con i migliori uomini dei secoli passati che ne sono stati gli autori, anzi come una conversazione meditata, nella quale essi ci rivelano i loro pensieri migliori» (René Descartes in “Il discorso del metodo”, Leida, 1637). Qualche secolo dopo Marcel Proust dice invece che: «La lettura, al contrario della conversazione, consiste, per ciascuno di noi, nel ricevere un pensiero nella solitudine, continuando cioè a godere dei poteri intellettuali che abbiamo quando siamo soli con noi stessi e che invece la conversazione vanifica, a poter essere stimolati, a lavorare su noi stessi nel pieno possesso delle nostre facoltà spirituali. (…) Ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso.» (Marcel Proust, in “Sur la lecture”, pubblicato su “La Renaissance Latine”, 15 giugno 1905 | In italiano, Marcel Proust, “Del piacere di leggere”, Passigli ed., Firenze-Antella, 1998, p.30). Tu cosa ne pensi in proposito? Cos’è oggi leggere un libro? È davvero una conversazione con chi lo ha scritto, come dice Cartesio, oppure è “ricevere un pensiero nella solitudine”, ovvero, “leggere sé stessi” come dice Proust? Dicci il tuo pensiero…

Leggere è ricevere un pensiero nella solitudine. Come dice Pennac: L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. In questa definizione c’è anche una ulteriore risposta alla domanda sulla diminuzione sempre più drastica del numero dei lettori oggi… l’uomo che non sa stare (o non riesce, o non può) da solo non legge. Leggere è poi anche quel che dice Proust, ossia un modo per indagare se stessi e per capire cosa si nasconde nelle profondità abissali della nostra anima.

«Non mi preoccupo di cosa sia o meno una poesia, di cosa sia un romanzo. Li scrivo e basta… i casi sono due: o funzionano o non funzionano. Non sono preoccupato con: “Questa è una poesia, questo è un romanzo, questa è una scarpa, questo è un guanto”. Lo butto giù e questo è quanto. Io la penso così.» (Ben Pleasants, The Free Press Symposium: Conversations with Charles Bukowski, “Los Angeles Free Press”, October 31-November 6, 1975, pp. 14-16.) Secondo te perché un romanzo, un libro, una raccolta di poesie abbia successo è più importante la storia (quello che si narra) o come è scritta (lo stile, la trama, il linguaggio utilizzato, più o meno originale, armonico, musicale, accattivante per chi legge), volendo rimanere nel concetto di Bukowski? Tu cosa ne pensi in proposito, alla luce della tua esperienza e del tuo punto di vista privilegiato?

La risposta sta nella definizione di successo. Il successo in termini editoriali, di vendite, raramente corrisponde ad un prodotto di qualità nei termini del pensiero e della forma: solitamente dipende dalla semplicità della fruizione, dalla popolarità dei temi, dalla semplicità dello stile che dunque arriva anche ai “meno colti”. Il che non è un male: la letteratura rosa, ad esempio, non va giudicata in termini negativi e proprio di recente ho seguito una interessante tesi di laurea sull’argomento. Non è questa una tendenza dell’oggi ma una tendenza generale della storia della letteratura, basti pensare alla nascita del romanzo nel Settecento come esigenza di una neonata borghesia avida di intrattenimento letterario ma non abbastanza colta da poter leggere la poesia. Certo poi la letteratura la fanno le grandi opere, quelle che col loro respiro universale e il loro stile sublime sono capaci di catturare un momento epocale della Storia dell’umanità e suscitare sommovimenti dello spirito capaci di influire sul progresso del pensiero senza per forza stravendere o piacere a tutti, o essere comprese da tutti.

«Direi che sono disgustato, o ancor meglio nauseato … C’è in giro un sacco di poesia accademica. Mi arrivano libri o riviste da studenti che hanno pochissima energia … non hanno fuoco o pazzia. La gente affabile non crea molto bene. Questo non si applica soltanto ai giovani. Il poeta, più di tutti, deve forgiarsi tra le fiamme degli stenti. Troppo latte materno non va bene. Se il tipo di poesia è buona, io non ne ho vista. La teoria degli stenti e delle privazioni può essere vecchia, ma è diventata vecchia perché era buona … Il mio contributo è stato quello di rendere la poesia più libera e più semplificata, l’ho resa più umana. L’ho resa più facile da seguire per gli altri. Ho insegnato loro che si può scrivere una poesia allo stesso modo in cui si può scrivere una lettera, che una poesia può perfino intrattenere, e che non ci deve essere per forza qualcosa di sacro in essa.» (Intervista di William Childress, Charles Bukowski, “Poetry Now, vol. 1, n.6, 1974, pp 1, 19, 21.). Tu da poeta cosa ne pensi in proposito? Ha ragione Bukowski a dire queste cose? Cosa è oggi la poesia per te, riprendendo il pensiero di Bukowski?

Sul destino da “influencer” di Bukowski, suo malgrado, si potrebbero dire tante cose: i suoi versi spopolano da anni a corredo di immagini social di persone che non sanno nulla di lui e della sua arte, ma trovano certe sue affermazioni poetiche accattivanti perché semplici, addirittura banali in quanto decontestualizzate. Detto questo la poesia non deve contenere per forza qualcosa di sacro, soprattutto quando il sacro è una posa, un atteggiamento, che allontana il poeta dalla realtà e dal suo compito di descrizione e decostruzione di quest’ultima, ma attenzione al concetto di “poesia di intrattenimento” che pur avendo uguale dignità di qualsiasi altro genere, non deve essere ridotta a feticcio per trasformare in poesia qualsiasi scritto in versi. Cos’è dunque la buona poesia? È il gran mattino che reca l’illusione di un inizio per citare un verso di Borges: è il fascio di luce che vedi entrare all’improvviso dalle tende semichiuse e illuminare la tua casa, il corpo della persona che ami, il mondo che ti circonda e ti contiene. Detto questo penso e affermo da tempo che un poeta debba sempre porsi l’obiettivo di avvicinare e non di respingere i suoi lettori, senza ovviamente scendere a compromessi con la qualità formale e sostanziale dei suoi testi, ma impegnandosi a far comprendere che la complessità della poesia è la complessità della realtà in cui tutti noi siamo immersi, e di cui tutti noi potremmo godere in termini poetici, non per sentirci meglio, ma per esserne maggiormente consapevoli.

«Il ruolo del poeta è pressoché nullo … tristemente nullo … il poeta, per definizione, è un mezzo uomo – un mollaccione, non è una persona reale, e non ha la forza di guidare uomini veri in questioni di sangue e coraggio.» (Intervista ad Arnold Kaye, Charles Bukowski Speaks Out, “Literary Times”, Chicaco, vol 2, n. 4, March 1963, pp. 1-7). Qual è la tua idea in proposito rispetto alle parole di Bukowski? Cosa pensi del ruolo del poeta nella società contemporanea, oggi social e tecnologica fino alla esasperazione? Oggi al poeta, secondo te, viene riconosciuto un ruolo sociale e culturale, oppure, come dice Bukowski, fa parte di una “élite” di intellettuali che si autoincensano reciprocamente, una sorta di “club” riservato ed esclusivo, senza incidere realmente nella società e nella cultura contemporanea?

Oggi al poeta non viene riconosciuto un ruolo sociale e culturale perché la gran parte dei poeti tende a far parte della élite di cui parla Bukowski: la società rigetta il poeta che a sua volta rigetta la società per elevarsi al di sopra del suo tranciante giudizio. Dopo Sanguineti e Pasolini in pochi sono stati i poeti chiamati sulle pagine dei quotidiani o in televisione ad esprimersi su temi di attualità o di interesse “concreto” e reale. A questo ha contribuito un epocale cambiamento sociale (la poesia perde importanza nell’economia generale della comunicazione, dice Guido Mazzoni) nonché una crisi interna al mondo della poesia (a metà degli anni Settanta poeti e pubblico della poesia erano ormai diventate le stesse persone perché in poesia la distanza che il lettore o l’ascoltatore percepiva fra sé e l’autore diventò minima o nulla, sempre citando Mazzoni), delle quali il sintomo è stata la chiusura del mondo della poesia in se stessa, l’atteggiamento generalizzato dei poeti come di esseri destinati a camminare col naso all’insù, avulsi dal mondo circostante, e dunque l’allontanamento quasi totale da parte dei già non numerosissimi fruitori del genere, che tendono a considerare la poesia cosa da poco, facilmente praticabile da chiunque e generalmente inutile e contraria alle logiche della vita reale. È vero anche che prendere consapevolezza dello stato della poesia contemporanea, grazie anche a diversi studi critici sul tema, è già un buon primo passo verso la possibilità di escogitare dei piccoli rimedi per tentare di creare una controtendenza.

«Lasciate che vi dia un suggerimento pratico: la letteratura, la vera letteratura, non dev’essere ingurgitata come una sorta di pozione che può far bene al cuore o al cervello – il cervello, lo stomaco dell’anima. La letteratura dev’essere presa e fatta a pezzetti, sminuzzata, schiacciata – allora il suo squisito aroma lo si potrà fiutare nell’incavo del palmo della mano, la potrete sgranocchiare e rollare sulla lingua con gusto; allora, e solo allora, il suo sapore raro sarà apprezzato per il suo autentico calore e le parti spezzate e schiacciate si ricomporranno nella vostra mente e schiuderanno la bellezza di un’unità alla quale voi avrete dato qualcosa del vostro stesso sangue» (Vladimir Nabokov, “Lezioni di letteratura russa”, Adelphi ed., Milano, 2021). Cosa ne pensi delle parole di Nabokov a proposito della lettura? Come dev’essere letto un libro, secondo te, cercando di identificarsi liberamente con i protagonisti della storia, oppure, lasciarsi trascinare dalla scrittura, sminuzzarla nelle sue componenti, per poi riceverne una nuova e intima esperienza che poco ha a che fare con quella di chi l’ha scritta? Qual è la tua posizione in merito?

Un libro deve essere letto senza regole, se non quella della passione sincera del suo lettore, che resta libero di selezionare le modalità a lui più consone per assorbire al meglio l’esperienza dell’opera. Il vero problema oggi è l’impossibilità della lettura, come in fondo dicevamo prima: in merito consiglio questa acuta riflessione di Agamben https://gabriellagiudici.it/giorgio-agamben-sulla-difficolta-di-leggere/ , affinché il focus sia cercare delle soluzioni attive per spingere il lettore a leggere meglio, a leggere di più, e il non lettore ad avvicinarsi spontaneamente a questa affascinante e arricchente pratica.

«Per quanto riguarda i corsi di scrittura io li chiamo Club per cuori solitari. Perlopiù sono gruppetti di scrittori scadenti che si riuniscono e … emerge sempre un leader, che si autopropone, in genere, e leggono la loro roba tra loro e di solito si autoincensano l’un l’altro, e la cosa è più distruttiva che altro, perché la loro roba gli rimbalza addosso quando la spediscono da qualche parte e dicono: “Oh, mio dio, quando l’ho letto l’altra sera al gruppo hanno detto tutti che era un lavoro geniale”» (Intervista a William J. Robson and Josette Bryson, Looking for the Giants: An Interview with charles Bukowski, “Southern California Literary Scene”, Los Angeles, vol. 1, n. 1, December 1970, pp. 30-46). Ha ragione Bukowski a dire queste cose a proposito di coloro che frequentano corsi di scrittura creativa? Cosa ne pensi in merito? Pensi che servano davvero per imparare a scrivere anche se il talento non c’è? Come si diventa grandi e apprezzati scrittori secondo te alla luce della tua esperienza di ricercatore universitario di letteratura e critico letterario?

Non credo sia un bene generalizzare prendendo come verità assoluta questa descrizione caricaturale di Bukowski. Penso che alcuni corsi di scrittura creativa possano essere stimolanti per chi li frequenta, indipendentemente dall’età e della provenienza culturale e sociale, se non altro perché dietro la sfida della scrittura c’è comunque (o almeno è ciò che ho tentato di fare quando ho avuto il piacere di tenere un corso presso la Casa del popolo del mio paese) uno studio guidato della poesia e delle sue strutture non solo formali ma anche storico-letterarie nonché la possibilità di entrare in contatto con poeti viventi, che con passione prestano spesso il loro contributo in queste iniziative. È chiaro che il prodotto finale del corso è un simbolo del lavoro svolto, un momento di autoriflessione e un tentativo non sempre riuscito di produrre buona poesia, ma le sorprese non sono rare e succede che poi ci si affezioni al genere e magari si continui a praticarlo con cognizione di causa. Certo può accadere anche il contrario, ma questo fa parte del gioco delle cose umane, mai perfette (e guai ad avere la pretesa che lo diventino).

Se per un momento dovessi pensare alle persone che ti hanno dato una mano, che ti hanno aiutata significativamente nella tua vita professionale e umana, soprattutto nei momenti di difficoltà e di insicurezza che avrai vissuto, che sono state determinanti per le tue scelte professionali e di vita portandoti a prendere quelle decisioni che ti hanno condotto dove sei oggi, a realizzare i tuoi sogni, a chi penseresti? Chi sono queste persone che ti senti di ringraziare pubblicamente in questa intervista, e perché proprio loro?

I compagni di viaggio della vita privata e della poesia sono stati tanti, citarli tutti costringendo il lettore di questa intervista (immagino già provato abbastanza) ad una sequela di ringraziamenti del tutto personali sarebbe per me fuori luogo. Ogni giorno cerco di dimostrare la mia gratitudine a chi la merita.

Gli autori e i libri che secondo te andrebbero letti assolutamente quali sono? Consiglia ai nostri lettori almeno tre libri da leggere nei prossimi mesi di vacanze estive dicendoci il motivo della tua scelta.

Federico Italiano, La grande nevicata, perché è uno dei più grandi poeti della sua generazione e perché questo libro si concentra sulle claustrofobie vissute da tutti durante questo biennio di pandemia.

Giuseppe Berto, Il male oscuro, perché è uno dei grandi scrittori posti ingiustamente al margine di una storia letteraria in questo caso iniqua e perché è un romanzo psicoanalitico di una bellezza sconfinata.

Milo de Angelis, De rerum natura di Lucrezio, perché è indiscutibilmente un gigante della poesia contemporanea e perché tradurre i classici è sempre una operazione nobile, ardita, affascinante.

… e tre film da vedere? E perché secondo te proprio questi?

Il signore delle formiche di Gianni Amelio, perché racconta del caso Braibanti, che tutti dovrebbero conoscere.

Le particelle elementari di Oskar Roehler, perché tratto da uno dei romanzi più belli di Houellebecq.

Parasite di Bong Joon-ho, perché è un piccolo capolavoro del cinema coreano e tratta con originalità il tema della povertà.

Ci parli dei tuoi imminenti e prossimi impegni letterari e professionali, dei tuoi lavori in corso di realizzazione? A cosa stai lavorando in questo momento? In cosa sei impegnato che puoi raccontarci?

Al di là degli impegni accademici, che mi porteranno sicuramente a lavorare su diversi temi e in particolare a continuare la mia ricerca sul genere satirico, per quanto riguarda la poesia sono in una fase di riflessione e di lettura, anche se ho qualche idea rispetto al tema che vorrò affrontare quando sarà il momento: genericamente per ora posso dire che sto lavorando sui muri e sui confini.

Dove potranno seguirti i nostri lettori e dove potranno seguire le tue attività e novità editoriali?

Sono sui social come tutti e ho un profilo su academia.edu dove carico parte della mia ricerca accademica – che spesso si trova anche sulle riviste di settore, in open access. https://www.facebook.com/eleonora.rimolo.9 – https://www.instagram.com/eleonora.rimolo/

Come vuoi concludere questa chiacchierata e cosa vuoi dire a chi leggerà questa intervista?

Ringrazio Andrea per l’ospitalità e l’impegno nella costruzione di questa intervista, complessa e articolata, alla quale spero di essere stata all’altezza. A chi ha letto fin qui, pure dico grazie per la pazienza e la fiducia.

Eleonora Rimolo

Eleonora Rimolo

I libri:

Eleonora Rimolo, Gasparo Gozzi, “Sermoni”, EdiSud Salerno ed., 2023:

Eleonora Rimolo, “Prossimo e remoto”, Pequod, 2022:

Eleonora Rimolo, “I mille volti di Lidia: genesi e sviluppo del personaggio”, Edisud Salerno ed., 2020:

Eleonora Rimolo e Giovanni Ibello, “Abitare la parola. Poeti nati negli anni Novanta”, Giuliano Ladolfi Editore, 2019:

Eleonora Rimolo, “La terra originale (Gialla)”, Pordenonelegge ed., 2018

Eleonora Rimolo, “Temeraria gioia”, Giuliano Ladolfi Editore, 2017:

Eleonora Rimolo, “La resa dei giorni”, Alter Ego ed., 2015

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