Cari lettori, Liberi Nobili, oggi proverò a spiegare uno dei momenti più critici dell’intervento clinico: il momento della svalutazione e del conflitto. Non capita con tutti i pazienti, ovviamente, ma è da mettere in conto se si ha davanti un paranoide, ipersensibile, narcisista e con ideazioni maniacali e deliranti. Questi soggetti passano, repentinamente, da un’eccessiva idealizzazione a una svalutazione. Proiettando nell’altro la propria malevolenza (fatta di invidia, gelosia, etc.), arrivano a esplodere, senza una ragione valida, una logica razionale e senza un reale preavviso, anche se vi assicuro che i segnali di osticità e aspettative deluse sono sempre visibili (Linguaggio Non Verbale) ancor prima del loro exploit, solo che, spesso, non abbiamo neanche il tempo di raccogliere le idee per una restituzione clinica mobilitante!
Vi ho già raccontato della paziente che mi mostrò una foto antica che ritraeva sua madre. Era molto suggestiva: spiccavano i colori in bianco e nero, l’abbigliamento e il pensiero tipico del Novecento andato. Non potei fare a meno di asserire: “Com’è bella, elegante, raffinata, complimenti!”. La paziente, delusa e arrabbiata, rispose: “Che vuole dire che è snob?”. Si tratta di distorsione percettiva ma rivela anche dei contenuti inconsci negati alla coscienza. Certamente, sentiva la mancanza della madre e dello status che si è disciolto col tempo e i lutti che questa persona aveva accumulato.
Prima di continuare le mie elucubrazioni cliniche, voglio precisare che il tratto paranoide lo abbiamo tutti e ci consente di stare sulla difensiva e di valutare le azioni e le persone. Tout court in ognuno, come ha detto il grande Freud, gli ingredienti sono dosati diversamente. C’è, inoltre, differenza fra struttura e disturbo di personalità e, non smetterò mai di ripeterlo, la malattia non viene per essere curata ma per curare (Jung). Detto questo, l’organizzazione di tipo paranoide può mettere davvero in difficoltà gli altri con la propria irritabilità e con i meccanismi difensivi utilizzati. Ciò è collegato a uno stile sintomatico attivo nella prima infanzia. Il bambino paranoide può risultare molto difficile da gestire, particolarmente esigente, negativo, ipereccitabile e manipolativo e, senza volere, gli adulti rinforzano le sue percezioni distorte, come il fatto che il mondo esterno sia inaffidabile e persecutorio.
Quando il paziente viene da me, in età adulta, uno dei miei compiti è quello di disvelare e analizzare le sue distorsioni percettive relative al rapporto con me e con gli altri, sfruttando proprio quei processi insiti nella relazione terapica che sono il “transfert” e il “controtransfert”. Il soggetto tende, cioè, a usare la proiezione e quello che è chiamato “lo sguardo paranoide”. Per il bene del paziente, tento di comprendere cosa non funziona e cosa viene utilizzato male e in eccesso, quali siano i suoi errori percettivi dovuti al tentativo di proteggersi da idee e consapevolezze dolorose. Per questo, è essenziale osservare e studiare tutto (sogni, lapsus, mancanze, assenze, richiesta –negata o accolta- di lunghe telefonate prima delle sedute, etc.), non lasciare niente al caso, anche quando si usa la tecnica del “self discoursing”.
Vi assicuro che quando si entra in conflitto con il curante, quello è il miglior momento del lavoro analitico. Lo dice la parola “crisi” che, nell’accezione positiva, viene associata alla parola “opportunità”. I litigi possono essere costruttivi o distruttivi, a seconda di come, quanto e quando li si gestiscano. Occorre elaborare insieme allo psicologo il proprio disagio eventuale, la rabbia, le eventuali aspettative deluse, la propria opinione e cercare di comprendere che, perché questo tipo di rapporto evolva, è essenziale “fidarsi” delle competenze e riconoscere la professionalità e il ruolo del curante. Se ciò non si riesce a fare, c’è certamente qualcosa che non va nel proprio modo di gestire le relazioni oggettuali, nella propria autostima e nel livello di maturità mentale raggiunto. Dietro un ottimo lavoro c’è un ottimo cliente (Le Corbusier) ma esistono dei modi appropriati di comunicare che sottolineano, con umiltà, rispetto e non con presunzione, il proprio punto di vista, dando una direzione significativa all’esperto.
Proprio per il peso di queste reazioni interne al trattamento clinico e per la gravità della sofferenza interiore palesata, a volte, noi psicologi ci sentiamo impotenti a offrire un valido aiuto a una persona così sola, infelice e sospettosa che erge una inaccessibile barriera allo stabilirsi di quel tipo di relazione che alla fine dà sostegno e sollievo (McWilliams).