“La gente pensa che guadagniamo 6.000 euro al mese e lavoriamo solo la mattina. Ma la realtà è ben diversa: siamo imprenditori di noi stessi, senza tutele e con carichi di lavoro crescenti. E ora il nostro ruolo rischia di essere completamente stravolto dal nuovo modello di sanità territoriale”.
Così Francesco Magliozzo, presidente provinciale della Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie (SIMG) di Palermo, sintetizza uno dei grandi fraintendimenti che circondano il lavoro dei medici di famiglia.
Oggi, infatti, questi professionisti sono al centro di una transizione epocale: il DM77, decreto attuativo del PNRR, prevede una riforma della medicina territoriale fondata su Case e Ospedali di Comunità, centrali operative e équipe multidisciplinari. Una rivoluzione che potrebbe cambiare in modo radicale il rapporto tra medico e paziente, i luoghi di cura e l’intero assetto organizzativo della sanità pubblica.
Niente stipendio fisso
“Parlare di stipendio per un medico di famiglia è improprio – precisa Magliozzo -. Non abbiamo un fisso mensile come nel settore della dipendenza. Il nostro compenso si compone di voci variabili: quota pro capite, assistenza domiciliare, campagne vaccinali, prestazioni ad alto impegno professionale, indicatori di qualità”.
“Il problema è che queste voci sono tutte soggette a variabili che spesso non controlliamo”, aggiunge Luigi Galvano, segretario provinciale della Federazione italiana Medici di Medicina Generale Palermo (FIMMG) di Palermo -. E non esiste alcuna tutela rispetto all’inflazione, ai costi crescenti di gestione o alle emergenze”.
6.000 euro? Solo sulla carta
“Un medico con 1.500 pazienti può arrivare a 6.000 euro lordi al mese“, spiega Magliozzo -. Ma da lì bisogna togliere tantissimo. Anticipo Irpef, contributi pensionistici, spese di studio (affitto, software, bollette, rifiuti sanitari). Si aggiunge, inoltre, il costo del personale: segretarie, collaboratori, infermieri. Tutto a carico nostro. E lo stipendio glielo paghiamo noi, contributi inclusi”.
“Ogni giorno passiamo ore a caricare dati e gestire burocrazia. Questo è tempo sottratto alla cura“, denuncia Galvano.
La realtà
“Alla fine restano meno di 2.500 euro netti, senza tredicesima, senza ferie pagate, e se ci ammaliamo dobbiamo pagare un sostituto – continua Magliozzo -. Abbiamo 11 mensilità vere, non 13 come gli ospedalieri”.
“Chi investe in qualità spesso guadagna meno – sottolinea Galvano -. Flat tax al 15% fino a 65.000 euro per chi lavora da solo. Chi lavora meglio, spende di più e paga di più. È un sistema che disincentiva l’efficienza”.
Il rischio del nuovo modello
“Si rischia di perdere il rapporto di fiducia tra medico e paziente, che è il cuore del nostro lavoro. Oggi il paziente ci sceglie. Domani, in una Casa di Comunità, si troverà un medico qualsiasi di turno. Ci chiedono di spostarci anche per decine di chilometri. Ma come faccio a seguire i miei pazienti? – osserva Magliozzo -. Se il modello delle Case non integra ma sostituisce la medicina generale, distruggeremo un presidio fondamentale. Serve integrazione vera, non centralizzazione impersonale”.
Serve una rivoluzione culturale
“La gente non è stata preparata a questo cambiamento epocale. Serve educazione sanitaria, consapevolezza del proprio ruolo di cittadino-paziente, e meno accessi inappropriati in pronto soccorso. Finché la TV continuerà a dettare le priorità sanitarie e a creare allarmismi, siamo perduti. Abbiamo bisogno di un patto nuovo tra cittadini e medici, basato su fiducia, responsabilità e ascolto reciproco, e di condizioni sostenibili per esercitare questa professione: servono strumenti adeguati, tutele reali e prospettive concrete per il futuro. Altrimenti questa figura rischia di scomparire”, conclude Galvano.