Il 27 maggio 1860, le truppe garibaldine, guidate dal loro condottiero, irrompono a Palermo attraverso Porta di Termini.
La città era intanto insorta, dovunque si innalzano barricate, e il popolo in arme, perfino preti e monaci, affronta i soldati regolari. Il comandante della piazza di Palermo, generale Ferdinando Lanza, perde il controllo della situazione e, nella concitazione del momento, assumendosene la responsabilità, ordina alle batterie del forte del Castello a Mare e a quelle della squadra navale di puntare i cannoni e far fuoco sulla città per colpire gli acquartieramenti del nemico.
Le bombe piovono su Palermo, cadono sulle case, cadono sugli ospedali, cadono sulle chiese, un bombardamento indiscriminato che rade al suolo interi quartieri e che provoca un numero imprecisato, ma in ogni caso molto alto, di vittime. Un bombardamento che indigna, per la sua efferatezza i tanti osservatori diplomatici stranieri che, insieme ai loro concittadini, si erano rifugiati sulle navi da guerra che erano state fatte confluire in quei giorni a Palermo per tutelare i loro interessi.
Quel bombardamento provocò lo sdegno perfino dei filo borbonici, non è un caso che il cappellano militare, don Giuseppe Buttà, definirà nel suo Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta… “il massimo del delitto, dell’infamia e della pazzia”.
Quel bombardamento, deciso senza avere richiesto l’assenso di Francesco II, addolorò particolarmente il sovrano che da Napoli fece pervenire l’ordine di non ripetere azioni di quel tipo. Quel bombardamento, infine, costituì il punto più alto della lacerazione dei rapporti fra Palermo e i Borbone. Il 30 maggio, a seguito di un armistizio mediato dai diplomatici inglesi, i cannoni cessarono di vomitare micidiali bombe su Palermo che offriva una immagine da apocalisse. “La bellissima metropoli dell’isola – scrisse l’ammiraglio inglese Rodney Mundy – presentava uno spettacolo da lacerare il cuore”.