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Lo scorso 26 ottobre Termini Imerese ha segnato un’altra tacca sul muro della memoria: l’intitolazione del carcere locale ad Antonino Burrafato, il vicebrigadiere degli agenti di custodia ucciso dalla mafia il 29 giugno 1982. Quel giorno si sarebbe giocata una delle partite passate poi alla storia: Italia-Argentina dei mondiali spagnoli. Dentro c’erano Maradona e Rossi. Finirà 2-1, con reti di Tardelli e Cabrini: agli Azzurri si era aperta la porta verso la finale del Bernabéu.
“L’omicidio avvenne poco dopo le 15,15 e la partita sarebbe stata trasmessa verso le 17 – ricorda il figlio, Salvatore, all’epoca sedicenne – e di quell’Italia parlavamo come tanti padri e figli nel resto del Paese. Soliti commenti sulle capacità della Nazionale di passare il turno… ‘Dai, cerca di esserci e di ritornare in tempo così la vediamo insieme’ gli dissi”.
Soliti commenti e soliti desideri: una partita ha un gusto diverso se guardata e commentata insieme. Soliti commenti che oggi, a distanza di trentasei anni, hanno il peso delle ultime testimonianze: quella voce, Salvatore, non la sentì più. “Quella partita – aggiunge – non la vidi; dopo quel giorno non l’ho più voluta vedere…». E quel giorno è diventato uno spartiacque, malgrado tutto”.
“Me lo riconsegnarono in seguito e da allora è rimasto lì“: le reliquie civili assumono le sembianze delle icone. Come quel dizionario rosso della Zanichelli “Che avremmo voluto far rilegare. Da casa mia al carcere – ricorda ancora il figlio – è un niente: poche centinaia di metri. Nel mezzo una tipografia dove portare a nuovo quel dizionario; avevamo deciso di andare insieme: lui avrebbe poi proseguito per il carcere e io sarei ritornato a casa”.
Ma come spesso accade, “I genitori tolgono ‘pesi’ dal sacco dei figli e alla fine mio padre decise di portarlo da solo, al suo passaggio”.
Antonino Burrafato fu ritrovato riverso per terra con quel dizionario in mano dopo i colpi dei killer, in piazza S. Antonio. Lì furono celebrati i funerali: tra i tanti fiori, due ghirlande. “Furono pagate dai detenuti. Il popolo carcerario – sottolinea ancora il figlio – aveva un ottimo rapporto con mio padre, che non era visto affatto come un nemico o come un piantagrane o che abusava della sua autorità”.
Nessuna lesa maestà, tranne che per uno di loro. Si chiamava Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e appartenente al gotha della mafia siciliana. Decise lui la morte di Burrafato, addetto all’ufficio matricola, perché “reo” di avergli causato “impicci” notificandogli un provvedimento giudiziario. Burrafato, in realtà, aveva applicato solamente il regolamento. Ci voleva una lezione per “far capire” chi realmente comandasse dentro ai “Cavallacci” (il nome del carcere prima dell’attuale cambio, dalla zona in cui era stato costruito).
Doveva pagare Burrafato. E pagò. Con la vita. “Di quell’episodio ne aveva parlato con mia madre con una certa preoccupazione – precisa il figlio – ed era vissuto con una certa ansia. Fu mia madre, che pochi giorni dopo l’omicidio, spianò la strada delle indagini indicando quella direzione”.
Quel carcere era una “bomba a orologeria”: dentro, oltre ai detenuti comuni, c’erano infatti mafiosi, collaboratori e brigatisti, tra cui Renato Curcio. Proprio nel ’79 una rivolta dei terroristi era stata sedata anche da Burrafato, lì in servizio dall’aprile del ’58, che si era pure offerto in cambio per lasciare liberi i colleghi sequestrati.
In questo percorso di riscoperta e di valorizzazione della memoria da parte dell’amministrazione penitenziaria, necessario a dare sostanza alla forma e ad assegnare nomi a cose e metri cubi vissuti dai carcerati, si inseriscono altri istituti come il “Pagliarelli” (intitolato ad Antonio Lorusso) e l’“Ucciardone” (intitolato a Calogero Di Bona). A Burrafato, già 15 anni fa circa, l’allora amministrazione comunale aveva intitolato la piazza antistante al carcere.
È lì che si è svolta la cerimonia, preceduta dal decreto di intitolazione voluto dall’ex capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, già lo scorso febbraio, alla presenza delle autorità civili e militari, concludendosi con la scopertura della targa da parte della moglie dell’agente assassinato, Domenica Di Figlia, e del provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Gianfranco De Gesu. A seguire la benedizione da parte di fra’ Agatino Sicilia, cappellano del carcere.
Burrafato, già medaglia d’oro al merito civile alla memoria e riconosciuto “vittima del dovere”, fu ucciso, colpito anche alla testa, da due uomini, Pino Greco e Antonino Marchese, di un commando di fuoco più ampio a bordo di due vecchie Golf Gt. Entrarono in città dall’autostrada e lì si immisero nuovamente per ritornare da dove erano venuti. Con quattro proiettili in meno.