In queste sere, la vostra Patti Holmes, in giro per Palermo e grazie ad un misterioso personaggio, si è ritrovata nel “Cortile delle Sette Fate“, un luogo di grande malìa di fronte alla Chiesa di Santa Chiara, e in men che non si dica trascinata dentro un’affascinate lettura di Giuseppe Pitrè, che così lo racconta: «‘Ntra stu Curtigghiu di li setti Fati, ‘nta la vanidduzza chi spunta ‘nfacci lu Munasteriu di Santa Chiara, vonnu diri ca la notti cci vinìanu sette donni di fora, tutti una cchiu bedda di ‘n’àutra. Sti donni si purtavanu quarchi omu o puramenti quarchi fimmina chi cci parìa a iddi, e cci facianu vidiri cosi mai visti: balli, sònura, cummiti, cosi granni. E vonnu diri puru ca si li purtavanu supra mari, fora fora, e li facianu caminari supra l’acqua senza vagnàrisi. Ogni notti faciànu stu magisteriu, e poi la matina spiriànu e, un si nni parrava cchiui. Di ddocu nni veni ca stu curtigghiu si chiama lu curtigghiu di li setti Fati.»
Per Pitrè, quindi, in questo “Curtigghiu”, dal castigliano “cortijo”, fare cortile, che la lingua siciliana plasticamente descrive come luogo in cui tira “n’aria scarmigghiata”, ogni notte apparivano sette bellissime fate che rapivano uomini o donne, (assoluta par condicio), per condurli in luoghi straordinari, come i cieli più lontani e gli oceani più profondi su cui farli camminare senza bagnarsi. I fortunati mortali, tra danze, canti e sensuali conviti, alle prime luci dell’alba venivano ricondotti nel luogo del loro “ratto”, immemori, però, dell’avventura straordinaria appena vissuta. Queste magiche creature ricondotte alle “donne di fora“, eredità di un antichissimo culto legato alla Dea Madre, segnerebbero il legame tra l’eterno femminino e le potenti forze della natura.
Secondo una visione meno fiabesca e più dark, le 7 signore in questione, che costituivano una società di 33 potenti creature sotto la dipendenza di un’anziana maîtresse che viveva a Messina, 3 volte a settimana, martedì, giovedì e sabato, e di comune accordo si recavano a concilio nell’isola di Ventotene, per decidere i legami da spezzare e i premi o i castighi da assegnare. “La donna di fora”, furba e accorta, prima di coricarsi, ricordava al marito che la notte era di “nisciuta” e a chi l’avesse voluta nella propria casa, invece, di ardere incenso, alloro e rosmarino.
Ricordiamo, in ordine di apparizione, che abbiamo incontrato il 7, il 33 e il 3. Perché insistere su queste cifre? Il motivo, o congettura che dir si voglia, è esoterico in quanto: il 7 è ritenuto magico, misterioso, intriso di sacralità fin dall’antichità (cosa può esserci di più misterioso di una fata o una donna di fora?); il 33 è simbolo delle tradizioni familiari, del rispetto verso gli anziani e, elemento discordante, di relazioni extraconiugali (7 donne sottomesse alla madre e di notte in libera uscita, fuori dal talamo nuziale) e il 3, infine, simbolo di unità e superamento dell’individualismo (il concilio). Un’ultima versione più realistica e spoetizzante le vede, invece, come “belle di notte” che, rapendo i sensi del prescelto, questa volta con “riscatto”, lo trascinavano in un eccitante e trasgressivo amplesso. A voi, cari amici, la scelta di pensarle come sogno o realtà, caste o peccatrici, asessuate o conturbanti, spose o captivae.
Concludiamo con una suggestione: e se “La Fata” di Edoardo Bennato fosse dedicata proprio a loro?