“Il Labirinto di una Vita” di Riccardo Biadene, tra le pellicole in programma all’interno del Sole Luna Doc Film Festival, sarà presentato al pubblico sabato 8 luglio.
Già autore e regista di documentari, Biadene presenta a Palermo l’ultimo suo lavoro, un avventuroso viaggio musicale, e non solo, sulle tracce di Alain Danièlou.
“Autodidatta di genio con libertà di pensare”, artista e non scienziato della musica indiana, Danièlou è stato il più grande promotore dell’arte indiana in Europa dagli anni ’30 agli anni ’60.
Prima della presentazione del documentario in città abbiamo sentito il regista a cui abbiamo chiesto del progetto e del sorprendente protagonista.
Perché la scelta di un biopic su Danièlou?
La scelta che mi ha portato a realizzare questo documentario risale a tanti anni fa e ad esperienze che, solo molto tempo dopo, sono confluite in questo lavoro; parlo di un lungo viaggio in India, dell’approfondimento personale delle culture ad esse legate e, non ultimo, all’aver incontrato il compagno di Danièlou. La scelta di approfondire la sua storia è stata voluta perché, come si evince dal taglio dato dalla regia del film, nonostante la sua iniziazione, a differenza di altri, non si è lasciato assorbire dalle contraddizioni culturali indiane; il suo è stato un invito concreto alla conoscenza diffidando dalle illusioni che spesso il mito della cultura orientale suscita. Danièlou, unico nel suo genere e nel suo periodo, fu un paladino della tutela delle differenze e della loro natura intima. La sua storia, non lineare da cui il titolo del film, ma comunque tranquilla, restituisce un’esperienza unica attraverso la musica e i luoghi che lo hanno accolto.
Quanto tempo ha impiegato per la raccolta del materiale e la realizzazione del film?
Ci sono voluti più di quattro anni per raccogliere l’immensa mole di materiale, che ha portato a circa cento venti ore di girato, per cui alla fine il montaggio è stata la fase più faticosa soprattutto perchè non era scontato il taglio narrativo che volevo dare alla pellicola. L’operazione di sintesi poi è stata delicata per la densità umana del soggetto che approfondivo, espansa lungo un arco temporale e di vita non indifferente. Alla fine il mio obiettivo principale è stato quello di far filtrare la maggior parte di informazioni per creare un processo interattivo con lo spettatore.
Il documentario sta girando tra i più importanti festival nazionali e non del cinema del reale; qual è stato l’accoglimento del pubblico?
Si, dopo la prima mondiale a Nyon, ad aprile, il film ha trovato grande accoglimento nei festival e in tante città, non solo europee, che continuano a richiederci proiezioni. Sono molto contento e orgoglioso, soprattutto per il riconoscimento ricevuto da parte di istituzioni tra cui l’Unesco; il pubblico non è stato di meno. Era chiaro da subito che il lavoro realizzato avrebbe interessato un pubblico di settore ma, dopo un buon numero di proiezioni, mi sto rendendo conto che la gente coglie la forma di un ritratto delineato in un determinato modo affinchè nel tempo possa rimanere come bagaglio culturale personale, problematizzando gli aspetti della vita che coinvolgono tutti. Gli spettatori riconoscono la fragilità e l’onesta con cui Danièlou si approcciò alla conoscenza di un’altra cultura, la stessa con cui io approccio la danza. Anche i suoi detrattori gli riconobbero queste qualità e soprattutto la volontà di non accomodarsi sulle verità assodate.
In questo particolare momento storico e sociale sembra che la società occidentale, più che in passato, si stia avvicinando alle tradizioni e culture orientali in cerca di una forma di ‘felicità’; cosa pensa a tal proposito?
L’India da sempre è nell’immaginario collettivo un pozzo da cui attingere nella ricerca di sé stessi ma molti lo approcciano con un atteggiamento new age che nulla ha a che vedere con la reale sostanza delle culture indiane, in cui ancora coesistono forti disuguaglianze, per quanto conservino concrete vie per colmare la scissione tra anima e corpo, che la cultura occidentale foraggia. Sono grato, personalmente, al mito dell’India che, come ogni esotismo, porta con sé delle insidie che vanno osservate con attenzione. Per me è come una polifonia di voci: va accolta e fatta coesistere, nei secoli, con i modelli occidentali.
All’interno del documentario si va componendo un disegno, in quattro quarti, realizzato dallo stesso Danièlou, a cui vengono associati stralci del suo pensiero. Che significato ha questa operazione?
Si, è vero è stata ponderata questa scelta con una funzione narrativa, ponendo l’accendo su determinati contenuti maturati dal protagonista. L’idea del labirinto non è quella più indagata da Danièlou però risponde all’esigenza di restituire la ricerca che egli fece durante al sua vita, fondata sull’impossibilità di conoscere sé stessi con gli elementi che permettono di conoscere gli oggetti. La scelta dei quattro quarti inoltre rispecchia la divisione temporale propria della musica occidentale. All’interno del film ho voluto far prevalere le ragioni dell’ascoltatore; la musica in fin dei conti, non avendo significati codificati immediati è meno strumentalizzata, è il medium fondamentale nel veicolare la cultura.
La pellicola è dedicata a Galezzo e Marianna; saranno per lei delle persone importanti…
Si, lo sono assolutamente. Galeazzo è mio nonno, poeta veneziano cofondatore del Ventuno (rivista nota per essere “una gazzetta di poesia” – ndr), grande bibliofilo a cui devo la mia formazione e la passione per l’India. Marianna, invece, è mia sorella appassionata studiosa delle danze indiane tradizionali che, con le sue coreografie contemporanee, fa in modo che la storia diventi continuo bacino a cui attingere. Tra i ringraziamenti devo aggiungere anche mio fratello Mattia che ha curato con grande professionalità e competenza il suono all’interno del documentario.