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Il petrolio in Sicilia, la febbre dell’oro nero nel Secondo Dopoguerra

martedì 26 Maggio 2020

La Sicilia, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, sembrò poter raggiungere il sogno di un pieno sviluppo industriale con il conseguente superamento dei problemi legati all’occupazione. Infatti, la scoperta di giacimenti petroliferi, già noti fin dai primi decenni del Novecento, fece sperare in un futuro economicamente felice per l’Isola.

La competizione che s’innescò per il controllo del mercato petrolifero tra le multinazionali americane e l’Eni (Ente nazionale idrocarburi) fu piuttosto accesa, che avvenne anche su basi ideologiche differenti e contrapposte: da un lato, la visione liberista garante dell’iniziativa privata, dall’altra una visione più statalista a favore dell’intervento pubblico nell’economia.

L’Eni nel 1960 scoprì a Gagliano Castelferrato, in provincia di Enna, un giacimento di metano e qui il 27 ottobre 1962 il presidente dell’ente nazionale idrocarburi Enrico Mattei tenne l’ultimo discorso pubblico, poco prima della tragica morte, dichiarando: “Non assorbiremo settanta persone, ma tutti coloro che potrete darmi, tutti, e sarà necessario che tornino molti di quelli che sono andati all’estero perché a Gagliano avremo bisogno anche di loro. Noi non vi porremo dei limiti”.

Le parole di Mattei esprimono fiducia e positività per un futuro occupazionale radioso per la Sicilia, probabilmente, egli credeva in uno “sviluppo senza limiti” alimentato dall’estrazione del petrolio e dall’industria petrolchimica: la crisi petrolifera del 1973 frantumerà tale convinzione.

Abbiamo già accennato che fin dagli inizi del XX secolo era nota la presenza dell’oro nero in Sicilia, tant’è vero che negli anni ’20 la società petrolifera americana, la Sinclair Oil aveva richiesto al governo fascista l’autorizzazione per poter effettuare esplorazioni nel sottosuolo isolano alla ricerca di petrolio.

Nel decennio successivo molte società petrolifere americane si adoperarono per la ricerca di giacimenti e dopo lo sbarco alleato del 1943 le attività di esplorazione continuarono.

Dopo il secondo conflitto mondiale Enrico Mattei (presidente di Eni) venne nominato commissario straordinario dell’ente statale Agip (Agenzia generale italiana petroli). Ma nel frattempo, precisamente il 20 marzo 1950, in Sicilia venne promulgata una legge che permetteva a qualsiasi privato di chiedere l’autorizzazione per cercare il greggio nell’Isola e sfruttarne il giacimento per l’estrazione. Una norma che evidentemente intendeva favorire gli investimenti privati rispetto a quelli pubblici.

Così la Gulf Oil Company nel 1954 iniziò a estrarre petrolio nel ragusano ma in quegli stessi anni tante furono le società straniere che dimostrarono interesse al greggio isolano. Non è un caso se tra il 1950 e il 1958, la piana di Catania, il ragusano e il bacino sedimentario della Sicilia centrale e occidentale furono esplorate in lungo e largo. A dominare furono grandi società multinazionali come Esso, la D’Arcy Exploration Co. affiliata con la Anglo-Iranian e poi anche la Snia-Viscosa e la Western Geophysical.

L’impresa privata più importante e agguerrita rimaneva la Gulf Oil Company la cui attività iniziò nel 1954 ma a Gela nel 1956 i tecnici dell’Agip scoprirono un giacimento petrolifero di importanti dimensioni. Per cui, inevitabilmente, la competizione tra la Gulf e l’Eni divenne sempre più vigorosa, ben presto non solo per l’individuazione e l’estrazione del petrolio ma anche per la sua raffinazione.

A tal proposito, il petrolio estratto a Ragusa giungeva tramite un oleodotto ad Augusta nelle Raffinerie siciliane oli minerali (Rasiom), società fondata nel 1949 da Angelo Moratti e acquistata nel 1953 dalla Esso. In poco tempo il territorio di Augusta diventò uno dei poli di raffinazione petrolifera tra i più grandi d’Europa.

Inoltre, nel 1954 la Edison fondò la Sincat iniziando a costruire nel 1956 una raffineria a Priolo, frazione di Augusta, il cui territorio dal punto di vista logistico era strategico per la presenza del porto, di altre raffinerie sul territorio e anche perché si trattava di una località facilmente raggiungibile pure per via terrestre. Tra il 1953 e il 1958, il settore petrolchimico avrebbe trainato il boom economico italiano e il complesso di Gela-Priolo-Augusta divenne uno dei centri petrolchimici più rilevanti d’Italia.

Anche Eni iniziò a dirottare le proprie energie in questo settore, fondando nel 1959 l’Anic Gela, la quale l’anno successivo avrebbe iniziato la costruzione di una raffineria, di un impianto petrolchimico e di una centrale elettrica.

A confrontarsi non erano soltanto imprese di natura giuridica differente, da una parte le multinazionali private straniere, soprattutto la Gulf, e dall’altra un’azienda pubblica, l’Eni, ma si trattava della contrapposizione di due approcci economici e politici contrapposti. Però, nei primi anni Sessanta l’esaurimento dei giacimenti petroliferi spinse la Gulf a cedere all’Eni alcuni impianti e nel frattempo anche le altre società private abbandonarono le attività di ricerca di nuovi giacimenti.

Si salvava soltanto l’industria petrolchimica di cui però nei decenni successivi rimarrà pochissimo a causa di molteplici ragioni: ad esempio, per l’affermazione dei petrolieri dell’Estremo Oriente ma anche per una forte pressione fiscale gravante sulle società private. Negli anni cinquanta don Luigi Sturzo, com’è noto di sensibilità e orientamento liberal-cattolico, difese la Gulf Oil Company, manifestando tutta la propria diffidenza nei confronti dell’iniziativa pubblica. Se la prese non soltanto con le sinistre ma anche con i repubblicani di Ugo La Malfa.

Probabilmente, la difesa di Sturzo a favore di una multinazionale privata, straniera e tendenzialmente monopolista era legata alla sua volontà di difendere l’autonomismo siciliano contro iniziative pubbliche di politica economica, nelle quali egli scorgeva linee di continuità col precedente regime fascista. A tali posizioni rispondeva vigorosamente Enrico Mattei, secondo il quale solo gli investimenti e gli interventi pubblici avrebbero potuto provocare un moto virtuoso orientato a generare lo sviluppo economico della Sicilia. Ma entrambe le parti non tenevano in considerazione che gli impianti di Gela, Augusta-Priolo-Melilli e Milazzo avrebbero provocato effetti drammatici sul piano ecologico, sanitario e sociale, dilacerando l’economia di quei luoghi e compromettendone gli sviluppi industriali futuri.

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