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La fiducia è la chiave del successo economico

venerdì 7 Aprile 2017
Elio Sanfilippo
Elio Sanfilippo

La Fiducia è tra i fattori immateriali che determinano il successo dell’agire economico.

Fiducia nelle persone, fiducia nel proprio proprie capacità , nel proprio progetto imprenditoriale e fiducia nelle istituzioni.

Una delle cause, tra le tante che si possono annoverare per la mancata ripresa, o per la eccessiva lentezza che la caratterizza, dipende in larga misura dal senso di sfiducia e di rassegnazione che serpeggia nell’opinione pubblica, tra i giovani e anche nel sistema imprenditoriale.

Si spiega così la continua emorragia delle risorse umane che colpisce in modo massiccio il sud, ma che coinvolge anche le imprese che sempre più preferiscono trasferirsi in aree economiche più dinamiche e di prospettiva.

Tra i tanti aspetti che compongono il concetto di fiducia, quella nel futuro, che funge da “lubrificante sociale”, è quello che, nella fase storica che stiamo vivendo, presenta le maggiori criticità.

La natura di questa crisi nata nel cuore del capitalismo mondiale, gli Stati Uniti, che ha avuto origine finanziare, è diventata globale colpendo l’economia reale e tutti i comparti produttivi e infine crisi sociale, provocando aree sempre più estese di povertà e di emarginazione sociale.

Quei paesi che potevano disporre di sistemi istituzionali più efficienti e moderni, di sistemi economici più solidi, di sistemi sociali più coesi, hanno affrontato meglio gli effetti della crisi come la Germania, e non solo, o si sono ripresi tornando a crescere, come gli Stati Uniti, almeno sotto la presidenza Obama. Discorso diverso vale per i paesi dell’area mediterranea, tra cui l’Italia che in tutti e tre i campi presenta criticità e in particolare il Sud e la Sicilia. Da questo punto di vista sarebbe utile avviare una riflessione sul referendum istituzionale, al di la del risultato registrato.

Sul terreno economico, infatti, qualsiasi indicatore si utilizzi, reddito pro capite, occupazione, produzione e perfino i consumi, che per il sud è una novità, presenta un aumento preoccupante del divario del Mezzogiorno con il centro-nord.

E anche i sintomi, seppure timidi di ripresa, a cominciare dalle esportazioni, non sono sufficienti ad iniettare iniezioni di fiducia nel Paese, anzi la percezione è quella di un declino inarrestabile.

Da questo punto di vista qualcuno ha voluto rintracciare qualche analogia tra la difficile situazione che stiamo attraversando con altri periodi difficili che il nostro Paese ha vissuto, come ad esempio le condizioni in cui versava l’Italia alla fine della seconda guerra mondiale: un paese sommerso dalle macerie, un’economia distrutta, fame e miseria diffuse ovunque, un apparato produttivo smantellato, una struttura statuale e amministrava da reinventare.

Sembrava allora una missione impossibile come anche oggi molti credono la stessa cosa per il rilancio del Paese.

Il paragone è un po’ audace anche perché allora uscivamo da una devastante guerra mentre oggi veniamo da una fase di benessere e di crescita che si è inceppata.

Quella realtà, tuttavia, presentava un elemento che oggi non si ritrova più nei cittadini ed è lo stato d’animo che serpeggiava tra la gente. La consapevolezza che, pur nelle ristrettezze, nella miseria, nelle difficoltà, i nostri padri pensavano di potercela fare. Dal disoccupato al lavoratore, dal professionista all’imprendiotore e all’intellettuale, si aveva fiducia e speranza nel futuro e in una vita migliore che poteva e doveva essere certamente migliore di quella che avevano vissuto con il fascismo.

E il paese si rimboccò le maniche, tutto proteso, nonostante le ferree differenze ideologiche a ricostruire il Paese.

Un ruolo decisivo, indubbiamente, lo svolsero allora i grandi partiti di massa, la DC, il PCI, il PSI, i quali propugnavano modelli virtuosi di società, anche se differenti, una visione di futuro ed erano un punto di riferimento positivo perché portatori di valori e idealità.

Oggi prevalgono sfiducia, rassegnazione, assenza di valori e di riferimenti ideali e culturali che producono isolamento sociale, egoismi, corporativismi e assenza di solidarietà.

Il discorso torna così alla politica, senza alcun rimpianto nostalgico per il passato, ma alla sua capacità si sapersi rinnovare e interpretare, come allora, questo sì, l’ansia di rinnovamento, se vuole riappropriarsi di un ruolo, di una funzione e di una credibilità oggi perduta. Una politica con la P maiuscola.

Senza la Buona Politica non vi potrà essere Buona Economia e il Paese arretrerà non solo economicamente e socialmente ma anche sul piano della sua tenuta democratica.

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