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La tragica storia della bella nobildonna, vittima di un femminicidio ante litteram

domenica 14 Ottobre 2018

Oggi vi raccontiamo una vicenda tragica che colpì, il 2 marzo 1911, le famiglie Mastrogiovanni Tasca Filangeri di Cutò e Trigona di Sant’Elia, ma andiamo per gradi.

La Principessa Giovanna Filangeri sposò, il 2 novembre 1867, Lucio Mastrogiovanni Tasca e dalla loro unione nacquero: Lucio, morto giovanissimo; Beatrice, moglie di Giulio Tomasi Principe di Lampedusa e madre di Giuseppe, l’autore dei “Racconti” e del “Gattopardo”; Teresa, consorte del Barone Piccolo di Calanovella, madre di Casimiro, fotografo e pittore, Agata Giovanna, botanica e Lucio, grande poeta scoperto da Eugenio Montale; Nicoletta, moglie del Cavaliere Francesco Cianciafara a cui fu legata dalla triste sorte di perdere la la vita durante il terremoto di Messina del 28 dicembre 1908; Alessandro, chiamato il “Principe rosso” per aver aderito al partito socialista ed eletto, nell’ottobre 1913, deputato a Palermo col risultato quasi plebiscitario di 3848 preferenze; Maria, che restò nubile e soggiornò in parte a Santa Margherita di Belice e in parte a Palermo e Giulia, moglie del Conte Romualdo Trigona, madre di Clementina e Giovanna, che può essere considerata, a ragione, vittima di un femminicidio ante litteram.

Ma chi era Giulia? Una donna molto bella e ammirata, una delle protagoniste indiscusse della vita mondana di quel tempo e assidua frequentatrice dei salotti della famiglia Florio, poiché amica di donna Franca. Ultima delle quattro sorelle Mastrogiovanni Tasca di Cutò, che Matilde Serao descrisse pensando “che ciascuna di esse meritasse una corona sovrana“, appena diciottenne, sposò il conte Romualdo Trigona dei principi di Sant’Elia, che si dedicò alla politica diventando sindaco di Palermo dal giugno 1909 al giugno 1910. Il loro matrimonio durò fino a quando Giulia non scoprì che il marito la tradiva con un’attrice della compagnia di Scarpetta. Da quel momento un profondo dolore e un grande desiderio di rivalsa si impadronirono, giustamente, di lei.

In quegli anni a Palermo, una delle mete più importanti dell’occidente europeo, furoreggiavavano i grandi ricevimenti che i Florio, un’istituzione per l’isola, tanto che la capitale siciliana veniva soprannominata “Floriopoli”, organizzavano nella loro villa dell’Olivuzza o nei saloni di Villa Igiea, l’albergo di lusso di cui erano i proprietari. Fu durante una di queste feste principesche, in una calda sera d’agosto del 1909, che Giulia incontrò il barone Vincenzo Paternò del Cugno, aitante tenente di cavalleria, di due anni più giovane di lei, sempre alla ricerca di soldi da investire nella passione per il gioco e per i cavalli. Un viveur e un tombeur de femmes dai modi galanti che nascondeva, però, un temperamento violento e impetuoso.

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Giulia e Vincenzo iniziarono una liaison dangereuse, una relazione segreta tormentata e travolgente, fatta di mille escamotage pur di vedersi e, anche, di liti furiose dovute all’assurda gelosia di lui, che procuravano frequenti fratture e, altrettante, frequenti riappacificazioni. Nacquero pettegolezzi e lettere anonime che, recapitate a palazzo Trigona, scatenarono l’ira di Romualdo verso Giulia, bersaglio di paurose scenate e atti di violenza fisica. Il conte scacciò la moglie di casa, ma su insistenza dei parenti la riprese con sé; lei, dal canto suo, fece la promessa, non mantenuta, di interrompere la storia col Paternò, covando in cuor suo l’idea di separarsi dal marito per andare a vivere con l’amante. Per problemi economici, che non le permettevano di compiere un tale gesto, decise di vendere un feudo che le avrebbe garantito la libertà. Intanto Vincenzo Paternò, che aveva lasciato l’esercito, le consigliava, come consulente, il cognato, l’avvocato Serrao.

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La regina Elena, però, cambiò il corso degli eventi e convocati i due sposi, Giulia sarebbe diventata sua dama di corte, forse, per tentare una riconciliazione, li fece trasferire al Quirinale; ma la giovane, ormai stanca, era sempre più ferma nella decisione di lasciare entrambi e, su consiglio dell’avvocato Serrao, vincolò la disponibilità della somma ricavata dal feudo per evitare che finisse nelle mani di Paternò. Quando questi lo venne a sapere, pieno di rabbia, recatosi al Quirinale, ebbe uno scontro furibondo con il cognato, colpevole di tramare alle sue spalle. Richiamata dalle grida dei due uomini, Giulia uscì dalla sua stanza, ma, mentre lei cercava di calmarlo, lui, ricoprendola di insulti, le strappò dal collo la catenina con la medaglia, raffigurante San Giorgio, che portava incisa la data del loro primo incontro, 11 agosto 1909, e le aveva regalato come pegno d’amore.

Resosi conto che la donna voleva lasciarlo, preda di un’ossessione amorosa che gliela faceva immaginare fra le braccia del Serrao, Vincenzo Paternò del Cugno riuscì a convincerla a vederlo un’ultima volta il 2 marzo 1911, alle ore 12, all’Hotel Rebecchino non lontano dalla Stazione Termini a Roma. Nella sua mente, però, già si faceva strada il malefico piano e, infatti, lungo la strada che lo conduceva all’appuntamento, fece una breve sosta in un negozio di armi, sito in via dei Crociferi, dove acquistò un coltello da caccia grossa. Quel giorno, quando Giulia arrivò in albergo, non immaginava certo che da lì a poco la sua vita sarebbe stata spezzata. Salita in camera, come aveva fatto tante altre volte, felice di riappropriarsi della sua vita e della sua libertà, non si accorse nemmeno, quando girò le spalle all’uomo che aveva così tanto amato, che la follia guidava la sua mano. La giovane, di appena 29 anni, capì ciò che stava avvenendo solo quando, colpita e ferita, sentendosi trascinare sul letto, lesse con orrore la sua fine negli occhi di lui, prima ancora di vedergli sollevare la mano che le avrebbe sferrato le due mortali coltellate alla gola.

Fu una cameriera che passava nel corridoio, insospettita dalle grida soffocate che giungevano dalla camera numero otto, che, spiando dal buco della serratura, vide la macabra scena: un uomo che brandiva un coltello e ripetutamente colpiva una donna, per poi afferrare la pistola e fare partire un colpo contro se stesso. La scena che si presentò agli occhi di chi accorse nella stanza, richiamato dallo sparo, fu agghiacciante: una donna sul letto sgozzata; un uomo, che si era sparato un colpo alla testa, gravemente ferito e sul pavimento, in un lago di sangue, sparpagliate per la stanza, più di cento lettere che la bellissima Giulia aveva scritto al suo affascinante tenente: Nel tuo affetto ho trovato tutte le dolcezze, tutte le consolazioni che credevo perdute per sempre!“. Queste le sue parole per quella illusione in cui trovò la morte. Paternò, soccorso immediatamente, sopravvisse e venne accusato di omicidio premeditato, ma nel corso dell’istruttoria il suo difensore invocò la semi-infermità mentale, chiedendo di sottoporlo a perizia ed elencando le malattie sofferte dall’imputato che gli avevano fiaccato la mente e il corpo.

Il 24 ottobre 1911 l’assassino fu mandato nel manicomio giudiziario di Aversa e affidato al Professore Filippo Saporito, l’illustre alienista direttore dell’istituto. Il risultato della perizia, però, smentì la tesi della difesa e Paternò, descritto da Saporito come “un volgare simulatore”, fu trasferito nel carcere di Roma “Regina Coeli”. Il processo si aprì il 17 maggio 1912 presso la Corte d’Assise di Roma e vide Giovanna e Clementina Trigona, figlie di Giulia, costituirsi parte civile. La Corte, il cui verdetto fu pronunciato la sera del 28 giugno dello stesso anno, non credendo alla volontà suicida dell’imputato, lo condannò alla pena dell’ergastolo. Trent’anni dopo, nel 1942, a 62 anni, Vincenzo Paternò ricevette la grazia e riacquistò la libertà. Morì nel 1949.

Questa storia fece molto clamore all’epoca, tanto che nacquero a Roma ballate popolari, se ne impossessarono i cantastorie in Sicilia, i giornali di tutta Europa diedero un grande rilievo all’assassinio della bella contessa palermitana; ma di essa non si è mai persa memoria e, infatti, è stata rievocata nel libro di Antonio Velani “Le pietre dello scandalo”; ne “Il delitto Paternò”, uno sceneggiato televisivo della Rai del 1978, con Delia Boccardo e Lino Capolicchio; in un romanzo fanta-politico della giallista Adriana Brown, “Un ventaglio Blu Savoia” e nel libro “Un fitto mistero, Immagini e storie del crimine” del magistrato-scrittore Giancarlo De Cataldo che contiene uno scatto, gliene fece ben 11 conservati nell’Archivio fotografico del Ministero dei beni culturali, che Mario Nunes Vais, il grande ritrattista fiorentino, dedicò a Giulia Trigona.

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Questa storia, però, sta per diventare film grazie a Monica Guerritore, mattatrice del teatro italiano, che vuole raccontare il femminicidio ante litteram che scosse Palermo e l’aristocrazia siciliana. L’attrice, ospite a luglio della masterclass del TaominaFilm Fest numero 64, ha anticipato così il soggetto a cui tiene in maniera particolare: «A convincermi definitivamente è stato Andrea Camilleri, punto di riferimento per questo progetto, che mi ha detto: “Monica quando si parlava della Trigona a casa mia si abbassava la voce”. E queste sue parole introdurranno la vicenda che racconterò. Sarà un cortometraggio di quindici minuti, inizieremo le riprese a settembre, tra Roma, Trieste e Ortigia. Mi sono chiesta cosa abbia portato la donna nel vortice di una relazione cosi pericolosa. Cosa spinge una donna a consegnarsi al suo assassino? Nessuno sa cosa ha pensato, cosa c’era nelle lettere che sono state ritrovate accanto al cadavere della Trigona, perché sono state bruciate, cosa può aver attraversato quel corpo e quel cuore? Ripercorrendo il suo cammino, mettendo i piedi nelle sue orme, cerco di riprendere il suo respiro».

Giovanna Trigona, una delle due figlie di Giulia e Romualdo, divenne icona nel cammino di emancipazione della donna siciliana, ma questa è un’altra storia di cui parleremo un’altra volta.

Foto “Reperti caso-Trigona” tratta dalla pagina www.museocriminologico.it

 

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