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Le mani della mafia su azienda di vini siciliana, sequestro da 70 milioni di euro

venerdì 20 Marzo 2020

Una nota “cantina” siciliana sarebbe stata coinvolta nel giro della mafia.

Questo è il motivo che ha portato al sequestro di vigneti e fabbricati di un’azienda vinicola isolana appartenente ad un principali gruppi vitivinicoli italiani. L’operazione è stata condotta dal gruppo della Guardia di Finanza di Trento, che ha dato esecuzione al provvedimento disposto dal gip presso il Tribunale del comune trentino.

Si tratta di un complesso aziendale, del valore di oltre 70 milioni di euro, che si estende nelle province di Agrigento e Ragusa con oltre 900 ettari di vigneti e numerosi fabbricati.
Contestualmente sono in corso numerose perquisizioni presso i domicili di quattro indagati, ritenuti responsabili, in concorso, del reato di riciclaggio aggravato dall’avere agevolato Cosa nostra, nonche’ presso gli altri luoghi nella loro disponibilità.

Le indagini, sviluppatesi attraverso ricostruzioni societarie, esame documentale, accertamenti bancari, acquisizioni informative svolte con il supporto di alcuni ufficiali di polizia giudiziaria dell’aliquota della Polizia di Stato della Procura di Trento, e acquisizioni testimoniali anche da numerosi collaboratori di giustizia, hanno permesso di appurare che tra il 2000 e il 2005 sarebbe stata posta in essere un’operazione commerciale, attraverso la quale sarebbero state acquisite le due tenute siciliane dalla precedente proprietà mafiosa per ottenere i terreni e gli edifici di pertinenza precedentemente individuati come funzionali ai progetti di sviluppo del Gruppo trentino.

Gli investigatori hanno delineato gravi indizi di responsabilità anche a carico di soggetti del gruppo societario trentino che, con due operazioni contrattuali collegate tra loro, avrebbero acquisito beni immobili in Sicilia, inizialmente di proprietà dei cugini Ignazio e Nino Salvo, uomini d’onore della famiglia di Salemi del mandamento di Mazara del Vallo. Dopo la morte dei due cugini Salvo la gestione formale dei beni è stata affidata a prestanome mentre quella reale, su “delega” di cosa nostra, ad un uomo d’onore palermitano e all’allora capo mandamento di Sambuca di Sicilia, previa autorizzazione di un noto boss latitante. Inoltre, le Fiamme gialle hanno accertato che le cessioni delle due tenute al Gruppo trentino sarebbero state perfezionate grazie all’operato congiunto di un commercialista e di un imprenditore, entrambi siciliani, quest’ultimo fornitore nonche’ socio di minoranza del Gruppo trentino.

La Guardia di finanza ha scoperto che per la componente mafiosa lo scopo del reato di riciclaggio sarebbe stato quello di liberarsi di beni immobili ricevuti e gestiti attraverso attivita’ criminali per sottrarli a misure cautelari reali e per investire il ricavato, cosi’ ripulito, in ulteriori imprese delittuose.

Di fatto, tenuto conto che la provenienza mafiosa dei beni sarebbe stata sempre identificabile e ricostruibile anche a distanza di molti anni, la loro trasformazione in denaro contante ha consentito a cosa nostra di anonimizzarne l’origine. Secondo un noto collaboratore di giustizia trattasi di “un classico di messa a posto” utile a garantire posti di lavoro, nonche’ denaro per i professionisti e le aziende contigue alla mafia.

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