Che poi ci si chiede cosa rimane delle estati trascorse a sorseggiare la vita e la libertà. Mi interrogo in silenzio, mentre come ragazzini attraversiamo questa terra su di una vespa alla ricerca di un amore che c’è, ma che cambierà presto il suo volto. Con la chitarra sulle spalle e questo desiderio inesploso. Uno scuietu a cui prima o poi daremo un nome. Un segno della croce nel nome del Padre. Il vento come compagno di viaggio e un abito bianco che mai avrò. E fumo sigarette contro il tempo della costrizione. Che quando l’amore arriva non chiede il permesso, esplode come vita e ti fotte l’emisfero sinistro.
E non vedo il mio mare spalancato come un tappeto, né le tartarughe arrivare, la sabbia, il sole. A dire il vero, c’è solo buio. E tremo, sono sudata, stesa a terra, i miei capelli biondi sparsi ovunque come le trecce di Andromaca. Cos’è questo dolore freddo che sento dappertutto? A cosa somiglia? E queste voci estranee che mi stringono i pensieri e le parole. Non ho la forza di capire, di parlare. Non ho più i miei ventiquattro anni.
È settembre, fa ancora caldo, il mio bimbo dorme ancora. Perché mi avete fatto questo? Chi siete? Dove state portando la mia libertà? Non sento più le gambe, le braccia che nuotavano nell’abbraccio del mio mare. Le dita, gli occhi. È così che si muore quando si muore? Io non ne avevo alcuna voglia perché per innamorarsi della vita non basta una vita e la mia è ancora sospesa tra i denti che adesso sbattono per chiedere le ragioni a mio padre. Balbetto, ma non ho il tempo della rabbia. Non ho neppure la voglia di perdonare. Sono usciti per me dal vicolo della morte che porta il mio stesso cognome? Che pensiero ho dato ai suoi amici aguzzini, in quale summit è finito il mio nome? Cosa rimarrà di questo pomeriggio, mentre so già che un telo bianco darà dignità al mio corpo sospeso tra la terra e questo spiacevole nulla che sto conoscendo. E cosa ricorderà di me questa città? Che non saprà mai il coraggio che c’è voluto a non voler essere più la figlia di un boss.
I pensieri galleggiano tra i ricordi. Come immagini filmiche della mia breve esistenza. Poche cose mi hanno resa veramente felice. La mia stanza, dalla quale ho sognato ciò che volevo essere e non sono stata. Quella prigione che mi ha permesso lo slancio per essere Lia. È stato bello essere me. Mi sto abbracciando compensando tutti gli abbracci negati. E sto abbracciando mio figlio che un giorno tornerà a volare di nuovo. Deve farlo. Lo farà ancora per Gero.
“Se muoio sopravvivimi” avrebbe detto Neruda. Era una speranza e una dichiarazione d’amore. Di quell’amore che non avremo mai. E siamo solitudine, io e te. Che si perde tra le strade percorse e già dimenticate. Io ho amato tanto, tu cosa ricorderai di me? Ed io cosa porterò con me mentre l’ultimo alito di vita mi accompagnerà sepolta tra i rotoli della speranza?
Sicilia, oggi 23 settembre 1983, muori pure tu. Per sempre. E nessun Palazzo di Giustizia ti darà la grazia. E adesso dimenticami pure, come hai fatto coi tuoi figli più belli. Sotterrami e butta la terra sulla mia bara mentre scende giù, tra l’oblio collettivo. Sono già qui, sull’Olimpo a cantare per te Wish You Were Here “Ti hanno portato a barattare i tuoi eroi per dei fantasmi? Ceneri calde con gli alberi? Aria calda con brezza fresca? Un freddo benessere con un cambiamento? E hai scambiato un ruolo di comparsa nella guerra, con il ruolo da protagonista in una gabbia”.
Addio Lia Pipitone che la nostra terra possa avere il coraggio di condannare il tuo assassino. Noi saremo sempre qua, al tuo fianco, a cantare con te.