Sull’origine del termine “mafia”, inquietante e sconcertante fenomeno che ha segnato pesantemente la storia siciliana, si sono accavallate ipotesi considerate più o meno attendibile sulle quali si sono, in alcuni casi, perfino sollevati polveroni polemici. Per tutte, la tesi del demologo Giuseppe Pitré confortato dallo scrittore Luigi Capuana che fa corrispondere il termine mafioso agli aggettivi bellezza o baldanza e cioè “un esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi ed idee”. Bisogna anche di che accettare una tale ipotesi avrebbe come conseguenza una nobilitazione dello stesso termine. Non è un caso, dunque, che nei riguardi del Pitré si siano sollevate polemiche soprattutto da parte di quei studiosi che si sono occupati del fenomeno mafioso. Sulla questione è tornato in questi mesi, con un saggio molto puntuale, aggiungendo alle tante che sono state formulate, un’ipotesi assolutamente originale e per molti aspetti convincente, Rosario Micciché, un giovane e attento studioso di formazione giuridica, già autore di studi di diritto costituzionale, attualmente consigliere parlamentare dell’Assemblea regionale siciliana. L’ipotesi formulata dal Micciché, nel saggio dal titolo, “La storia dei termini mafia e mafioso”, che è frutto di una riflessione su quanto casualmente gli era capitato di ascoltare nel fiorito linguaggio di una borgata di Palermo, potrebbe essere la chiave giusta per stabilire, una volta e per tutte, l’origine del termine mafia che, bisogna ricordare, trova una sua prima consacrazione letteraria nella nota opera teatrale “I mafiusi della Vicaria”, composta dall’attore Giuseppe Rizzotto e dal maestro elementare Gaetano Mosca – omonimo ma non parente, quest’ultimo, del grande scienziato della politica – nel 1863, che ebbe un incredibile successo di pubblico ed innumerevoli rappresentazioni, una delle quali in un teatro di Napoli addirittura alla presenza del principe ereditario, e futuro re d’Italia, Umberto di Savoja. L’etimo, insinua Micciché, potrebbe infatti trarre origine da un modo di esprimersi dialettale in uso a Palermo e cioè sarebbe la sostantivazione dell’espressione “m’a fijù”, derivante dal verbo fidarsi, cioè confidare in sé stesso, essere capace e dotato del coraggio per affrontare situazioni perfino straordinarie. Esempi in questo senso ve ne sono tanti e Micciché ne riporta alcuni come “m’a fiju a parràrici” o “m’afiju a ìrrici” la cui traduzione in italiano corrisponde “ho il coraggio di parlargli” o, ancora, “ho il coraggio di andarci.” Una tesi suggestiva, che l’autore, con molta cautela propone, e questo gli fa sicuramente onore, giustamente in termini dubitativi ma che, tutto sommato, ci convince al punto da sperare in ulteriori approfondimenti.
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