I carabinieri del nucleo investigativo del gruppo di Monreale hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Palermo, su richiesta della Dda, guidata dal procuratore Maurizio de Lucia, nei confronti di 6 persone accusate di associazione mafiosa.
A essere colpita è stata la “famiglia” di Camporeale il cui capo, pur essendo detenuto, sarebbe riuscito a mantenere saldamente il controllo del clan e la gestione degli affari illeciti, grazie alla collaborazione di affiliati e familiari. L’influenza mafiosa si sarebbe manifestata anche nella compravendita, ad un prezzo imposto, di bovini e ovini destinati al macello.
L’indagine ha permesso inoltre ai carabinieri di accertare che, in più occasioni, semplici cittadini si sarebbero rivolti alla mafia per ottenere l’autorizzazione preventiva all’acquisto di terreni agricoli, il recupero di crediti da debitori insolventi e, ancora, per dirimere controversie nate tra privati.
Gli indagati avrebbero esercitato un pressante potere di controllo anche nella gestione dei fondi agricoli dell’area camporealese, autorizzando o negando l’utilizzo di terreni per il pascolo.
Gli inquirenti hanno, infine, scoperto che un dipendente comunale avrebbe attestato falsamente il rispetto da parte di due mafiosi della zona degli obblighi loro imposti dalla messa alla prova.
C’è anche il sindaco di Camporeale (PA), Luigi Cino, tra gli indagati nell’inchiesta della Dda di Palermo sulla cosca mafiosa del paese che oggi ha portato a sei arresti. Secondo gli inquirenti Cino, eletto primo cittadino nel 2022, avrebbe dichiarato falsamente che Giuseppe e Pietro Bologna, oggi arrestati per mafia e all’epoca dei fatti pregiudicati, osservavano le prescrizioni imposte loro dalla messa alla prova, una sorta di sospensione del procedimento penale per chi compie lavori di pubblica utilità.
Per i pm, inoltre, il boss del clan Antonino Sciortino, che nonostante la detenzione continuava a comandare e organizzare affari, avrebbe fatto votare Cino alle ultime elezioni.
I nomi
Il gip di Palermo Lirio Conti ha disposto gli arresti nel blitz antimafia nel Palermitano per Antonino Sciortino nato a Camporeale, 62 anni, Antonino Scardino, Camporeale, 59 anni, Giuseppe Bologna, Trappeto, 63 anni, Pietro Bologna, Trappeto, 68 anni, Giuseppe Vinci, Palermo, 50 anni, Raimondo Santinelli, Partinico, 37 anni.
L’inchiesta: il boss di Camporeale in cella continuava a dare ordini
Con l’aiuto della moglie, Anna Maria Colletti, il capomafia di Camporeale Antonino Sciortino, in carcere da anni, continuava a mandare ordini all’esterno, in particolare a suo cugino, Antonino Scardino, che aveva assunto la guida temporanea del mandamento.
Lo rivela l’inchiesta della Dda di Palermo sulla cosca di Camporeale che oggi ha portato a sei arresti. Secondo i pm, dunque, Sciortino avrebbe mantenuto un costante collegamento con gli uomini d’onore liberi, finalizzato intanto all’investitura del cugino alla guida della famiglia mafiosa; al rilascio delle autorizzazioni all’utilizzo, all’acquisito e al divieto di accesso a pascoli e terreni agricoli della zona, all’imposizione di lavorazioni agricole gratuite sui terreni della moglie o alla vendita a un prezzo superiore a quello di mercato dei bovini dell’azienda della donna.
Le indagini hanno inoltre dimostrato come sempre dalla cella il boss abbia indirizzato il voto sul candidato sindaco Luigi Cino, tra gli indagati.
I rapporti con le imprese
E’ dedicato ai rapporti tra l’azienda vitivinicola di Camporeale “Rapitalà” e alcuni esponenti mafiosi della zona uno dei capitoli dell’indagine della Dda di Palermo che oggi ha portato a sei arresti. “L’attività di indagine dei carabinieri – scrive il gip nell’ordinanza di custodia cautelare in carcere – ha fatto emergere gli interessi economici di Cosa Nostra camporealese anche nel settore della produzione e della vendita di prodotti vinicoli attraverso le diverse cantine della zona. Tra queste senza dubbio la più importante per fama e grandezza è la Cantina Rapitalà, società per azioni del Gruppo italiano vini con capitale sociale al 31/12/2021 pari a 7.200.000 euro e un volume d’affari per il solo anno di imposta 2021 pari a oltre 5 milioni”.
L’impresa è proprietaria a Camporeale di una tenuta estesissima. Tra i dipendenti i carabinieri segnalano Alfio Tomarchio, poi deceduto e Ignazio Arena, entrambi ritenuti vicini alla cosca. Nell’organigramma della società – fanno notare gli investigatori – come dipendenti stagionali figurano 11 persone “vicine per legami di parentela alla famiglia mafiosa di Camporeale”. Segno, secondo gli inquirenti, “della permeabilità del tessuto logistico ed economico della società a infiltrazioni da parie del gruppo criminale”.
Nella misura cautelare la Rapitalà viene definita come “asservita” al clan retto da Antonino Scardino, reggente del mandamento durante la detenzione dello storico capomafia Sciortino. “Si documentava infatti chiaramente come la famiglia mafiosa di Camporeale – si legge – ricevesse con cadenza mensile sia somme di denaro contante che altri beni (vini e nafta) provenienti dalla cantina Rapitalà tramite alcuni suoi dipendenti evidentemente contigui al sodalizio mafioso, come Tomarchio e Arena”.
Tomarchio e Arena, ha svelato l’indagine, fissavano incontri mensili con Scardina per versargli denaro che, secondo gli inquirenti, sarebbe andato a Anna Maria Colletti, moglie del boss detenuto Antonino Sciortino. La donna avrebbe usato i soldi anche per pagare le spese legali da affrontare per il marito. “Il denaro, inoltre, non era frutto di regali spontanei di Tomarchio, ma rientrava – secondo gli investigatori – in in un meccanismo di collaudato asservimento dell’impresa agli interessi della famiglia mafiosa”.