La mafia è democratica. Non potrebbe essere altrimenti. Lo è nel suo Dna, nonostante la democrazia propugnata dalle cosche sia di certo una forma distorta e assolutamente personale.
Del resto, che le dittature non amino i poteri paralleli – specie quelli criminali come la mafia – è noto. Senza “competitors” che vogliono trattare ampie fette di potere si governa meglio. E le organizzazioni criminali forti sono un ostacolo. Lo sapeva bene Benito Mussolini, quando nel 1924 decise di sferrare un attacco senza precedenti ai clan, dando incarico al prefetto Mori di debellare i gruppi mafiosi e mandando al confino tantissimi boss e “picciotti”. E del resto, è noto anche il discorso che il capo del Fascismo tenne ad Agrigento l’8 maggio del 1924, quando annunciò l’avvio della repressione del suo governo contro la mafia: «Vi dichiaro – disse – che prenderò tutte le misure necessarie per tutelare i galantuomini dai delitti dei criminali. Non deve essere più tollerato che poche centinaia di malviventi soverchino, immiseriscano, danneggino una popolazione magnifica come la vostra».
Tuttavia, non è questo che qui si vuole sottolineare.
E non stiamo parlando nemmeno dell’Operazione Husky del 1943, quando le truppe Usa sbarcarono in Sicilia senza troppe difficoltà, anche grazie all’accordo con il potente criminale Lucky Luciano, che garantì ai “liberatori statunitensi” la collaborazione dei capimafia italo-americani, facendo da cerniera fra gli Stati Uniti e l’Isola. Fu questa l’altra faccia della liberazione, quella resa possibile dall’intesa fra la democrazia Usa e i boss, confermata oltre trent’anni dopo nella celebre relazione conclusiva della commissione parlamentare antimafia datata 1976.
Quando parliamo di democrazia mafiosa non ci riferiamo a questi episodi (sia pure significativi) della storia. Ci limitiamo, semmai, ad analizzare il metodo “amministrativo” di gestione dei clan: un metodo democratico che non è mai tramontato, come è stato confermato anche nel corso dell’operazione Falco del Ros dei Carabinieri, che ha decapitato la famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù.
La riunione intercettata dai carabinieri, convocata per nominare i nuovi capifamiglia del clan, conferma come a decidere il nome del capo, siano stati dodici “uomini d’onore” della cosca e come nel corso dello stesso summit siano stati nominati anche il sottocapo, il consigliere e i capidecina. Tutto sarebbe avvenuto con votazione palese per alzata di mano.
A ben guardare, il metodo adoperato in questo caso non è troppo dissimile da quanto avveniva in passato. La storia della mafia, infatti, è contrassegnata da molteplici elezioni dei vertici criminali e da altrettante punizioni quando questi non hanno rispettato il compito loro assegnato. In “Cosa nostra“, infatti, chi viene sfiduciato non deve accollarsi esclusivamente la mera sostituzione del capo ribelle con un altro più rispettoso delle regole. Quando ciò accade, scattano omicidi, vendette e lupare bianche. Del resto, non è un mistero che nella mafia, le questioni siano spesso state risolte con copioso spargimento di sangue, quando l’accordo tra opposte visioni e il ravvedimento non erano possibili.
Del resto, già nel 1991, nel suo libro “Cose di cosa nostra“, Giovanni Falcone così ricostruiva la composizione democratica dell’organigramma mafioso: “Alla base vi è l’uomo d’onore, o il soldato, che ha un suo peso nella famiglia indipendentemente dalla carica che vi può ricoprire. I soldati eleggono il capo, che chiamano rappresentante, in quanto tutela gli interessi della famiglia nei confronti Cosa Nostra. L’elezione si svolge a scrutinio segreto ed è preceduta da una serie di sondaggi e di contatti. Tra capo e soldato si situa il capo decima. Altro livello gerarchico: i capi delle famiglie di una medesima provincia (Catania, Agrigento, Trapani) nominano il capo di tutta la provincia, detto rappresentante provinciale. Questo vale per tutte le province tranne che per Palermo, dove più famiglie contigue su uno stesso territorio (in genere tre) sono controllate da un ‘capo mandamento’, una sorta di capo zona, che è membro della famosa commissione o Cupola provinciale. A sua volta questa Cupola nomina un rappresentante alla commissione regionale, composta di tutti i responsabili provinciali di Cosa Nostra: è questo il vero proprio organo di governo dell’organizzazione. Gli uomini d’onore la chiamano anche “la Regione” con riferimento all’unità amministrativa”.
Insomma, in pratica non c’è niente di più democratico della mafia, anche se ciò avviene secondo un principio distorto, in base al quale la democrazia mafiosa prevede una parvenza di governo plurale, ma al tempo stesso è anche sanguinaria e vendicativa; una “democrazia criminale” che adotta ogni mezzo a sua disposizione pur di mantenere il potere nelle proprie mani.