I Carabinieri stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 29 persone accusate di appartenere alla famiglia mafiosa di Niscemi. L’operazione è coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta. Gli indagati sono accusati di reati contro la persona e contro il patrimonio, nonché di detenzione di armi da sparo.
Nel corso delle indagini preliminari è emerso anche il tentativo di omicidio di un imprenditore che anni prima aveva denunciato un tentativo di estorsione. Omicidio che è stato evitato grazie anche al monitoraggio da parte dei carabinieri coordinati dalla Dda. Alle 11 è prevista una conferenza stampa, per i dettagli dell’operazione, nel Comando provinciale dei Carabinieri a Caltanissetta.
Venticinque persone sono finite in carcere, 3 ai domiciliari, tra cui due donne, e per un altro indagato, un carabiniere, è stata disposta la sospensione dall’esercizio delle funzioni, nell’ambito dell’operazione “Mondo opposto” eseguita dai carabinieri a Niscemi e coordinata dalla Dda di Caltanissetta.
“Non si tratta – ha detto il procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca – della solita operazione antimafia, non che solita sia offensivo, ma questa attuale ha delle peculiarità assolutamente chiare. Dobbiamo riaffermare che Cosa Nostra, che è sul territorio da circa 160 anni, non è un comitato d’affari ma è mondo opposto. Il fatto più grave è quello ricondotto a colui che è stato ritenuto il capo mandamento di Gela, Alberto Musto”.
“Il progettato omicidio di un imprenditore – aggiunge – che aveva osato denunciarlo circa 10 anni prima. Non si tratta solo di chiacchiere o di un moto di rabbia. Perché il progetto dell’uccisione è stato fermato solo grazie alla tempestività delle forze di polizia che sono sempre state accanto alla Dda. Si tratta di un progetto di omicidio in relazione al quale c’era già l’autista pronto su un’auto rubata. Una delle pistole doveva essere fornita dai presunti killer che arrivavano da Catania. Si trattava di un omicidio che avrebbe dovuto avere una ‘funzione punitiva’. I fratelli Sergio e Alberto Musto provavano un odio profondo per questo soggetto che aveva contribuito a fare condannare Alberto”. “Ma non aveva – ha concluso De Luca – solo una funzione di vendetta. Vi è una frase in cui Musto afferma ‘punirne uno per educarne cento. Non è possibile che qualcuno denunci e rimanga impunito perché altri potrebbero seguirlo a ruota’”.
“Uno dei presunti esecutori aveva un precedente specifico per tentato omicidio aggravato. Sono arrivati con passamontagna e una rivoltella. Avevano chiesto un’altra pistola ad Alberto Musto che sul momento aveva manifestato delle perplessità per il fatto che i killer non avessero le idee chiare sull’identità della vittima e perché lo avevano contattato prima telefonicamente sebbene con telefono di altro soggetto. Erano stati ripresi dalle telecamere per ben due volte” prosegue De Luca.
“Musto avrebbe dunque ritenuto opportuno di posticipare di qualche giorno. Il Nor di Gela in quella occasione ha fatto intervenire la finanza che ha fermato il soggetto alla guida dell’auto che si è dato alla fuga e ha gettato la pistola, poi ritrovata – continua – Ma la cosa non è finita qui perché i fratelli Musto, e in particolare Alberto, secondo le denunce successive dell’imprenditore hanno continuato con una serie di minacce esplicite. Ogni volta che lo incontravano lo minacciavano. E in più vi erano stati contatti con la mafia di Gela perché venisse portato a termine l’omicidio. Musto è rimasto fermo nell’intento di uccidere. Tutto questo avviene quando era stato scarcerato da poco e sottoposto alla misura di prevenzione. Contemporaneamente gli era stato conferito il ruolo di capo mandamento”.
In carcere sono finiti Alberto Musto, 37 anni, Sergio Musto, 35 anni, Andrea Abaco, 27 anni, Francesco Amato, 53 anni, Giuseppe Auteri, 42 anni, Emanuele Burgio, 51 anni, Luigi Cannizzaro, 59 anni, Vincenzo Cannizzaro, 35 anni, Francesco Cantaro, 47 anni, Francesco Cona, 26 anni, Davide Cusa, 30 anni, Renè Salvatore Di Stefano, 33 anni, Alessandro Fausciana, 45 anni, Gaetano Fausciana, 54 anni, Salvatore Fausciana, 24 anni, Gianni Ferranti, 64 anni, Giovanni Ferranti, 40 anni, Salvatore Giugno, 55 anni, Giuseppe Manduca, 57 anni, Francesco Piazza, 59 anni, Antonio Pittalà, 32 anni, Salvatore Signorino Pittalà, 61 anni, Carmelo Raniolo, 49 anni, Paolo Rizzo, 69 anni, Francesco Alessio Torre, 46 anni, Carlo Zanti, 69 anni. Ai domiciliari il poliziotto in pensione, Salvatore Giugno, 55 anni, e due donne di cui non sono stati resi noti i nomi.
Gli indagati sono accusati, a vario titolo, dei delitti di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, favoreggiamento personale, violenza privata, minaccia e minaccia a pubblico ufficiale, illecita concorrenza con minaccia e violenza, incendio, porto e detenzione di armi e munizionamento, ricettazione e violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza.
Un contesto territoriale caratterizzato da uno spietato ricorso alla violenza – hanno ricostruito gli inquirenti – e all’imposizione del pizzo a commercianti ed imprenditori che venivano costantemente minacciati. Una delle vittime aveva osato ribellarsi 10 anni prima e così il capo mandamento – Alberto Musto secondo gli investigatori – aveva deciso che doveva morire. Nel corso delle indagini sono emerse anche minacce e intimidazioni dirette ad appartenenti delle forze di polizia.
Gli indagati avevano lasciato una testa di maiale davanti al portone di ingresso dell’abitazione di un poliziotto e avevano anche progettato, ma non sono a riusciti a portarli a termine, l’incendio di un’autovettura e colpi di arma da fuoco contro le abitazioni di altri esponenti delle forze dell’ordine. Tentativi che sono stati sempre anticipanti e sventati dai Carabinieri.