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Misteri di Sicilia. L’amaro e irrisolto caso della Baronessa di Carini

venerdì 1 Febbraio 2019

Per raccontare “L’amaro caso della Baronessa di Carini“, definito “delitto d’onore” o, se fosse stato il padre, come si narra, sarebbe più esatto parlare di figlicidio, partiamo da una data, il 4 Dicembre 1563. I protagonisti sono: Don Cesare Lanza, Barone di Trabia e Conte di Mussomeli; Laura, la figlia quattordicenne; Vincenzo La Grua-Talamanca, l’appena sedicenne Barone di Carini, a cui andrà in sposa, e Ludovico Vernagallo, l’amante della giovane senza alcun titolo nobiliare. Il caso vide Don Cesare Lanza accusarsi dell’omicidio, avvenuto nel castello e confessarlo in una lettera, che riporteremo in seguito, al re di Spagna, per aver colto la fedifraga in compagnia dell’amante.

Baronessa di Carini

Il matrimonio di Laura e Vincenzo
L’unione tra Laura e Vincenzo era stata voluta fortemente da Don Cesare che, per dare maggior lustro al suo casato, aveva dato in sposa la figlia a uno dei più ambiti rampolli della nobiltà del tempo. I festeggiamenti per queste nozze, avvenute il 21 dicembre del 1543, durarono un intero mese tra banchetti e illustri ospiti. Laura, non potendo ribellarsi alla volontà paterna, accettò il proprio destino, anche se a farle battere il cuore era Ludovico Vernagallo. In realtà, ancora oggi, questo assassinio è avvolto da una fitta nebbia che cercheremo di diradare.

Qual è la verità?
Laura Lanza conobbe Vincenzo La Grua, divenuto poi suo marito, e Ludovico Vernagallo quando era ancora bambina; quest’ultimo, quindi, sarebbe potuto essere un amico di famiglia e la sua presenza al castello consueta sin dalla prima infanzia. Secondo la versione più accreditata e raccontata anche da due fortunati film per la Tv, uno del 1975 con Ugo Pagliai e Janet Agren e il remake del 2007 con Luca Argentero e Vittoria Puccini, il padre, Don Cesare Lanza, nell’infausto giorno in cui si macchiò dell’efferato delitto, giunse al castello scorto, dalla finestra, dalla giovane donna che, in compagnia del suo amante, capì che qualcosa di terribile stava per accadere.

Baronessa di Carini

I dubbi sul caso
Don Cesare, ecco il primo dubbio che solleviamo, come fece ad arrivare proprio in quel preciso momento al castello? Secondo elemento, che poniamo alla vostra attenzione, è quello secondo cui trovò il genero inferocito, ma allo stesso tempo così freddo e razionale da incitarlo a infliggere alla figlia, con le sue stesse mani, per l’offesa subita, delle coltellate al cuore e ai reni. Terzo elemento e ultimo, come mai il marito, invece di agire d’impeto, passeggiava nervosamente in attesa dell’arrivo del suocero e come sapeva che Don Cesare sarebbe arrivato da un momento all’altro? Da qui nasce il dubbio che ad uccidere Laura non fosse stato veramente il padre.

Ecco apparire, prepotentemente sulla scena, in questo momento della nostra narrazione, un elemento che potrebbe farci comprendere il perché dell’inazione di Don Vincenzo La Grua: a quel tempo la legge dava al padre il diritto di uccidere  la figlia adultera con l’amante se fossero stati colti in flagranza di tradimento all’interno della casa di famiglia o del marito a cui, invece, era consentito di rifarsi, soltanto, sull’amante della moglie, senza potersi vendicare direttamente su di lei.

Ma altre ipotesi su questo caso, che da storico divenne leggendario, vogliamo far emergere: una di queste vorrebbe il marito, Vincenzo La Grua, compiere in prima persona l’omicidio e il suocero addossarsi la colpa per salvarlo; un’altra farebbe risalire la causa scatenante dell’assassinio non al movente dell’onore e della vendetta, ma ad un evento luttuoso che colpì Laura e Vincenzo, la morte del loro primogenito, Pietro, di appena 15 anni, che avrebbe gettato il padre in uno sconforto tale da sfociare nella follia che armò, probabilmente, la sua mano omicida. A questo si aggiungerebbe un altro importante tassello: il Barone di Carini sarebbe stato a conoscenza del tradimento della moglie e, non essendo certo della reale paternità dei figli avuti con lei, pur di evitare che il patrimonio familiare finisse in mani illegittime, avrebbe premeditato e pianificato, con l’aiuto del suocero, l’uccisione della giovane donna.

Del proseguo della storia si sa soltanto che i Signori di Carini cercarono di affrancarsi dalla triste vicenda, destinando i propri fondi alla costruzione di innumerevoli siti religiosi in cui le più grandi maestranze artistiche del tempo impiegarono il proprio genio e che Vincenzo La Grua tentò, in seguito, di trovare il suo legittimo erede in matrimoni successivi senza, però, riuscirvi. Nonostante i tentativi dell’epoca di avvolgere nell’oblio l’efferato caso, evitando che la storiografia ufficiale se ne occupasse, i cantastorie siciliani si impadronirono di quella tragedia d’amore e morte iniziando e continuando, fino ai nostri giorni, a tramandare le vicende della Baronessa di Carini e mantenendone, così, per sempre vivo il ricordo che coinvolge ogni ascoltatore e visitatore che, giungendo nell’austero castello, sente riecheggiare, tra le sue antiche mura, la memoria di questo delitto rimasto senza la certezza del colpevole.

Baronessa di Carini

La riapertura del caso nel 2010
Nel 2010 l’allora Sindaco di Carini, Giuseppe Agrusa, decise di riaprire il caso e chiedere l’intervento dell’Icaa, International Crime Analysis Association. Dalle investigazioni emerse un’altra verità, quella che vedrebbe la salma della Baronessa riposare, non nella Chiesa madre di Carini, ma nel centro storico di Palermo, nella cripta, tornata alla luce alla fine degli Anni 90, della chiesa di San Mamiliano. Dopo aver analizzato le tante cappelle delle due famiglie alla ricerca delle tombe,  l’Icaa arrivò alla conclusione che la fanciulla dormiente, scolpita nel marmo del sarcofago, fosse proprio lei, Laura Lanza.

La cosa, d’altronde, non risulterebbe campata in aria se si pensa che questa è la cripta della sua famiglia e qui sono seppelliti il nonno Blasco Lanza, la seconda moglie del padre Castellana Centelles e, probabilmente, anche il padre Cesare Lanza. L’anonimo sarcofago della fanciulla è posto, inoltre, proprio sotto a quello del nonno, «segno di una profonda familiarità tra i due defunti». La tomba, più volte profanata e depredata tra l’Ottocento e il Novecento, si legherebbe a quanto avrebbe detto lo spirito della nobildonna ai ghostbuster: «Sono sepolta in una tomba dove ci sono tanti cani, dov’è il malefico». Che fossero i ladri, quei cani malefici?

Carmelo Dublo, grafologo e perito del tribunale che ha guidato la ricerca, ha sollevato molte riflessioni sul caso e la colpevolezza di Don Cesare Lanza e tra queste quella per cui per raggiungere Carini da Palermo, a cavallo, all’epoca ci volevano almeno 6 ore e che, quindi, il Barone di Trabia non avrebbe potuto sorprendere nessuno; da qui l’impressione che il reo confesso, uomo di grande cultura e giureconsulto, si sia sacrificato per coprire il vero autore del delitto, il genero, Don Vincenzo La Grua.

Il frate delatore
Secondo alcune ricostruzioni, sarebbe stato un frate del vicino convento, confessore della Baronessa, ad informare del tradimento Don Cesare che, premeditando l’assassinio e preparando l’agguato nei minimi particolari, quando il delatore lo avvertì che i due amanti stavano insieme, fece una folle corsa nella notte a Carini, irruppe all’improvviso nel castello, uccidendo i due amanti. L’atto di morte di Laura Lanza e Ludovico Vernagallo, trascritto nei registri della chiesa Madre di Carini, reca la data del 4 dicembre 1563, ma nessun funerale fu celebrato e la sconvolgente notizia, per paura o per rispetto, fu tenuta segreta. La cronaca del tempo lo registrò con estrema cautela e senza fare i nomi degli uccisori, scrive Luigi Maniscalco Basile, senza dire nemmeno che cosa fosse accaduto; il Paruta, invece, riporta il fatto nel suo diario, così: “sabato 4 dicembre. Successe il caso della signora di Carini”. La notizia si divulgò lo stesso, nonostante tutti gli accorgimenti, e “il caso della Baronessa di Carini” divenne di dominio pubblico.

Il Vicerè di Scilia
Esistono dei documenti da cui risulta che il Vicerè di Sicilia informata la Corte di Spagna che Cesare Lanza, Barone di Trabia e conte di Mussomeli, si era macchiato dell’uccisione della figlia Laura e del suo amante, Ludovico Vernagallo, adottò, per lui e Vincenzo La Grua, i provvedimenti previsti dalla legge: li fece bandire, sequestrandogli i beni; ma il potente Don Cesare Lanza, rivolgendosi personalmente al re, spiegandogli i motivi che lo avevano spinto, assieme al genero, a trucidare i due amanti e avvalendosi delle norme, in vigore a quel tempo, sulla flagranza dell’adulterio, chiese il perdono che gli fu accordato.

Il Barone di Trabia e Conte di Mussomeli riebbe i suoi beni e la Giustizia lo assolse. Come scrisse il Dentici, “l’aristocrazia del tempo era al di sopra delle leggi e della giustizia”. Anche, il Barone di Carini, marito di Laura, fu assolto con formula piena, e visse indebitato sino alla sua morte, dopo avere portato al Monte dei Pegni gli ultimi gioielli della sua famiglia.

Ecco il Memoriale presentato da Cesare Lanza al Re di Spagna per discolparsi del delitto della figlia Laura:

Sacra Catholica Real Maestà,

don Cesare Lanza, conte di Mussomeli, fa intendere a Vostra Maestà come essendo andato al castello di Carini a videre la baronessa di Carini, sua figlia, come era suo costume, trovò il barone di Carini, suo genero, molto alterato perchè avia trovato in mismo istante nella sua camera Ludovico Vernagallo suo innamorato con la detta baronessa, onde detto esponente mosso da iuxsto sdegno in compagnia di detto barone andorno e trovorno detti baronessa et suo amante nella ditta camera serrati insieme et cussì subito in quello stanti foro ambodoi ammazzati.

(Don Cesare Lanza conte di Mussomeli)

Baronessa di Carini

L’impronta
La vicenda della Baronessa di Carini è divenuta nota nel tempo grazie alla leggendaria apparizione dell’impronta insanguinata su una parete del castello: Laura, infatti, si sarebbe si toccata il petto, poggiando la mano sulla parete, e quella sua mano sanguinolente sarebbe rimasta a testimoniare il terribile omicidio, riapparendo ad ogni anniversario della sua morte.

Il Salomone Marino, nel secolo scorso, raccolse da un esaltatore questi versi in cui si fa rivivere l’efferatezza del delitto:

Vju viniri ‘na cavalleria
chistu è mè patri chi veni pri mia!
Signuri patri, chi vinistivu a fari?
Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari.
Signuri patri, aspettatimi un pocu
Quantu mi chiamu lu me cunfissuri.
Habi tant’anni ch’un t’ha confissatu,
ed ora vai circannu cunfissuri?
E, comu dici st’amari palori,
tira la spata e cassaci lu cori;
tira cumpagnu miu, nun la sgarràri,
l’appressu corpu chi cci hai di tirari!
Lu primu corpu la donna cadìu,
l’appressu corpu la donna muriu.”

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