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Oltre al burnout

Moral Injury: quando il medico diventa vittima del sistema che dovrebbe salvare

martedì 27 Maggio 2025

“C’è una sofferenza che non si vede, ma che logora, ogni giorno, chi dovrebbe curare. Non si tratta di burnout, ma di moral injury – lesione morale – un peso che schiaccia soprattutto noi medici dell’emergenza-urgenza, dove la pressione è continua e le risorse non bastano mai”, denuncia Massimo Geraci, direttore dell’Unità di Medicina d’Urgenza dell’Arnas Civico di Palermo.

“Non è esaurimento, né trauma. È qualcosa di più sottile e persistente. E’ la frustrazione di sapere cosa sarebbe giusto fare per un paziente, ma non poterlo fare. Non per mancanza di volontà, ma per carenza di strumenti. Quando un ricovero urgente non può essere garantito per assenza di posti letto, il bisogno resta reale, ma la risposta non arriva – spiega – . Ogni volta che succede, qualcosa dentro si incrina. È una ferita che si riapre quando la coscienza del medico viene subordinata alla burocrazia, quando ci si chiede di accettare l’inevitabile come fosse normale. È lì che nasce la vera lesione morale: nella frattura tra ciò che dovremmo fare e ciò che possiamo fare”.

“Schiacciati in quella che ormai è diventata una camera di compressione di tutte le criticità, del Sistema così come dell’ospedale stesso, i professionisti dell’emergenza-urgenza si trovano a dover dare risposte a ogni tipo di domanda di salute che si riversa nel luogo di cura più facilmente accessibile – prosegue -. Questo sovraccarico continuo crea i presupposti per la perdita della spinta motivazionale”. 

Il fenomeno

Il termine moral injury nasce in ambito militare per indicare le conseguenze psicologiche vissute da chi è costretto ad agire in contrasto con i propri principi morali. In ambito sanitario, il termine descrive la frattura interiore che si produce quando un medico, pur sapendo cosa sarebbe eticamente corretto per il paziente, è sistematicamente ostacolato da vincoli amministrativi, carenze strutturali o logiche aziendali. A differenza del burnout, che riflette un esaurimento emotivo e lavorativo, la lesione morale investe direttamente l’identità professionale e la dimensione etica del curante.

Secondo la British Medical Association (2021), i segni principali includono senso di colpa, vergogna, conflitto spirituale o esistenziale e un profondo disorientamento morale, spesso accompagnati da perdita di fiducia nelle istituzioni sanitarie. Altri studi evidenziano una serie di sintomi secondari: depressione, ansia, rabbia, immagini intrusive, comportamenti autolesivi e difficoltà relazionali. Ma anche disgusto verso se stessi, convinzioni di indegnità, bassa autostima, autocritica intensa, autoaccusa, sfiducia nelle persone e nelle figure autoritarie, evitamento dell’intimità e vissuti di debolezza personale.

Il moral injury è inoltre associato allo sviluppo di compassion fatigue, burnout, depressione, disturbo da stress post-traumatico e, nei casi più gravi, comportamenti suicidari.

L’esplosione dell’insoddisfazione nell’aggressione

Accade che un paziente attenda ore per un trasferimento, che i familiari chiedano legittimamente spiegazioni, e che noi non sappiamo cosa rispondere. Non per negligenza, ma per limiti strutturali. Il medico si ritrova a gestire la frustrazione del cittadino e, insieme, a sopportarne il peso morale. Perché il sistema non ti consente di agire secondo coscienza –racconta Geraci -. Questa frustrazione reciproca, non affrontata, può degenerare in aggressività. Giorno dopo giorno si alimenta un clima di delusione condivisa: il cittadino si sente abbandonato, il medico inadeguato. E quando la fiducia si spezza, nasce la violenza. Non per cattiveria, ma per rottura del patto di cura“.

Le soluzioni  da porre in campo

“L’emergenza, oggi, non è solo clinica. È anche relazionale, sociale, sistemica evidenzia –. Se separo un paziente dal familiare, si crea un cortocircuito affettivo e comunicativo. Chi lavora in prima linea non può occuparsi anche di ansie come sapere se il padre ha mangiato o se il telefono è carico. Sono bisogni legittimi, ma non sanitari, e dovrebbero essere gestiti da personale adeguatamente formato. Se il pronto soccorso non è più soltanto un luogo di diagnosi e cura, ma un ambiente di presa in carico globale del paziente, con tutte le sue fragilità, allora bisogna esserne conseguenti anche nella programmazione delle risorse”.

“Non servono poliziotti negli ospedali o corsi di autodifesa. Servono figure non sanitarie dedicate alle attività di front desk e interfaccia, capaci di ascoltare, contenere e disinnescare i conflitti prima che esplodano – aggiunge -. E servono psicologi stabili nei pronto soccorso, a supporto non solo dei pazienti ma anche del personale sanitario, per affrontare trauma, frustrazione etica e rischio di lesione morale”.

“La lesione morale non si cura con vacanze o mindfulness, ma con azioni concrete sottolinea -. Senza far finta che tutto vada bene con un vero e proprio gaslighting istituzionale, che acuisce il divario tra realtà vissuta e narrazione ufficiale. Occorre supportare davvero gli operatori nella gestione delle difficoltà quotidiane, anche attraverso percorsi formativi specifici nell’ambito dell’educazione continua in medicina. È necessario integrare nei curricula universitari programmi che allenino i fattori protettivi nei futuri professionisti, così come educare i cittadini, fin dalla scuola, a comportamenti sostenibili e aspettative realistiche nei confronti del sistema sanitario pubblico“.

“Chi lavora in emergenza-urgenza non lo fa per prestigio o denaro, ma per vocazione. Una vocazione profonda, radicata in un senso di responsabilità verso l’altro, che però si sgretola ogni volta che diventa impossibile dare risposte adeguate. Il pronto soccorso non è un campo di battaglia. È, o dovrebbe essere, un luogo in cui la dignità del medico e quella del paziente possano incontrarsi e riconoscersi. Ma questo incontro richiede condizioni minime di umanità – conclude –. Contrastare la lesione morale significa restituire strumenti, tempo e alleanze umane a chi lavora in prima linea. Solo così possiamo salvare non solo i corpi, ma anche le coscienze”.

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