Non studiano, non lavorano e non hanno più fiducia nel futuro. In Italia, i cosiddetti Neet (“Not in education, employment or training”) sono circa 1,7 milioni, ossia quasi un quinto dei giovani di età compresa tra 15 e 29 anni, e un terzo di questi risiede proprio in Sicilia. L’Italia si qualifica così come il paese con il più alto numero di Neet rispetto a tutti gli altri stati dell’Unione Europea, per un totale del 19%, secondo solo alla Romania (19,8%).
CHI SONO I NEET?
Come ci raccontano i dati forniti dall’Istat, il fenomeno dei Neet interessa in misura maggiore le ragazze (20,5%) e, soprattutto, i residenti delle regioni del Mezzogiorno (27,9%), con un picco da record del 46,3% a Caltanisetta. Seguono Taranto, Catania, Napoli, Messina, Palermo, Siracusa, Foggia e Catanzaro.
Ma il fenomeno pesa ulteriormente anche sugli stranieri (28,8%) e su chi non possiede un’elevata preparazione accademica. Pare infatti che il fenomeno dei Neet colpisca circa il 20% tra i giovani diplomati o con al più la licenza media, mentre si ferma al 14% tra i laureati.
Un triste record che grava ulteriormente sulle spalle dei nostri giovani, soprattutto se si considera che nel 2022 è arrivata all’11,5% la quota di ragazzi, tra i 18 e i 24 anni, che hanno abbandonato gli studi senza ottenere il diploma superiore. L’incidenza degli abbandoni è superiore di oltre 4 punti tra i maschi rispetto alle femmine e sfiora il 18% nelle Isole.
IL RETAGGIO PATRIARCALE
Quello dei Neet è un fenomeno che si associa a un tasso di disoccupazione giovanile elevato (il 18%, quasi 7 punti superiore a quello medio europeo), con una quota di giovani in cerca di lavoro da almeno 12 mesi (8,8%), tripla rispetto alla media europea (2,8%). Circa un terzo dei Neet (559 mila) è disoccupato, nella metà dei casi da almeno 12 mesi (il 62,% nel Mezzogiorno, contro il 39,5% nel Nord).
Oltre tre quarti dei Neet vivono da figli ancora nella famiglia di origine e solo un terzo ha avuto precedenti esperienze lavorative. Quasi il 38% dei Neet (629 mila) non cerca lavoro né è disponibile a lavorare immediatamente e quest’ultimo gruppo si divide a sua volta tra chi è in attesa di intraprendere un percorso formativo (il 47,5% tra i ragazzi), chi indica problemi di salute e chi dichiara motivi di cura dei figli o di altri familiari non autosufficienti (il 46,2% tra le ragazze); solo il 3,3% dichiara di non avere interesse o bisogno di lavorare.
Dalla lettura di questi dati emerge come uno dei fenomeni che più influisce su una così alta concentrazione di Neet nel nostro Pese e in particolare nella nostra Regione, sia il retaggio patriarcale che in alcuni casi porta le ragazze a scelte svantaggiose, spingendole a porre al primo posto il loro ruolo in quanto responsabili per la cura della famiglia a discapito della crescita individuale e professionale, rendendo più difficile l’ottenimento di un lavoro. Nel caso in cui lo si trovi, invece, sono proprio le responsabilità familiari a costringere sempre più donne a dimettersi o a subire differenze salariali rispetto ai colleghi di sesso opposto.
Sono infatti 4 su 10 le donne fra i 35 e i 44 anni a non lavorare, contro il 15% degli uomini. Se, invece, consideriamo il tasso di attività e non di occupazione, cioè includiamo anche le donne che studiano, il dato aumenta a 7 donne su 10. Di queste, quindi, 3 sono inattive, decidendo di dedicarsi unicamente a casa e famiglia, oppure hanno un qualche lavoro saltuario in nero, quindi senza alcun diritto o garanzia di disoccupazione. Se allarghiamo la fascia alle 30-69enni, sono 7,5 milioni le donne che non lavorano (il 42%), con un picco del 58% di quelle residenti al Sud.
COME ARGINARE IL FENOMENO
Nel nostro Paese sono quasi 2 milioni i giovani più vulnerabili perché deprivati in più dimensioni del benessere: si sentono abbandonati a loro stessi, senza un futuro a cui aggrapparsi o un obiettivo da raggiungere, portando così ad uno spreco del loro potenziale produttivo. L’unico passo da compiere è reinvestire nella cosiddetta “lost generation” mediante investimenti che avvicinino scuola e imprese per contribuire a ridurre l’abbandono scolastico e stage retribuiti che invoglino e facilitino il passaggio da studenti a lavoratori.