Il nostro racconto è un dolce abbraccio tra il Giappone e la Sicilia e ha per protagonisti O’Tama Kiyohara e Vincenzo Ragusa, una coppia unita nella vita e nell’arte, un amore d’altri tempi che fa sognare tuttora ed è stato eternato da mostre, libri, film a cui accenneremo.
O’Tama Kiyohara e l’amore
Facciamo un salto in Giappone e immaginiamo O’Tama (anche se come vedremo il suo nome era Tayo e il soprannome Tama), nata nel 1861 a Shiba, un quartiere di Tokyo, circondata, sin da piccola, da pennelli e intenta a dipingere nello Zōjō-ji, il tempio di cui il padre era custode, col bel visino serio e sorridente, forse, già consapevole che quella sarebbe stata la sua strada, ma non di certo che, grazie a questa passione per l’arte, avrebbe incontrato il più grande amore della sua vita e lasciato il Paese del Sol Levante per l’Isola del Sole. Riavvolgiamo il nastro.
Intorno alla prima metà del XIX secolo, dopo duecento anni di chiusura nei confronti dell’Occidente, il Giappone apre le sue frontiere, avviando rapporti economici e diplomatici con gli Stati Uniti e l’Europa. L’illuminato imperatore Mutsuhito, considerando l’Italia culla dell’arte, con l’intento di fondare una scuola, che reggesse il passo con le linee stilistiche della cultura figurativa moderna, invitò Antonio Fontanesi, per la pittura, Giovanni Vincenzo Cappelletti, per l’architettura, e il palermitano Vincenzo Ragusa, per la scultura, selezionati tra 50 candidati dall’Accademia milanese di Brera. Nacque così a Tokyo la scuola d’arte Kobu Bijutsu Gekko del Ministero dell’industria e tecnologia.
Vogliamo raccontarvi il primo incontro tra O’Tama e Vincenzo prendendo a prestito una strofa di “C’è tempo“, uno dei tanti capolavori di Ivano Fossati:
“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle l’istante in cui scocca l’unica freccia che arriva alla volte celeste e trafigge le stelle“.
Ed è quello che successe. Infatti, in una giornata in cui Cupido svolazzava nelle vicinanze, Vincenzo vide per la prima volta, come una sorta di immagine onirica, nel giardino della casa che lo ospitava, la sua giovane futura sposa intenta a dipingere un ventaglio. O’Tama, che ha solo 17 anni, sarà la prima giapponese a posare come modella per un artista europeo e, già in questo, è possibile notare come in lei convivessero la tradizione e il desiderio di oltrepassarla senza, però, profanarla. A soli 21 anni fece una scelta radicale, quella di sradicare le sue radici e trapiantarle in un altro mondo per amore di colui che sarebbe stato il suo compagno nella vita e nell’arte. Accompagnata dalla sorella O’Chiyo, esperta ricamatrice, e dal cognato, maestro laccatore, attori non protagonisti, ma pur sempre camei di tutto rispetto, seguì a Palermo lo scultore che, profondamente colpito dalla cultura giapponese, trasportò nella sua amata terra, in ben 123 casse, una vastissima collezione di tesori, circa 4200 fra disegni e oggetti, acquistata nei circa 7 anni di permanenza in Giappone.
Il suo progetto pionieristico era quello di creare in città un Museo e una Scuola d’arti orientali a livello europeo, per far immergere la Sicilia nella straordinaria e sconosciuta cultura nipponica, cosa che gli riuscì per metà in quanto, nel 1888 e nel 1916, fu costretto a vendere gran parte di questi beni al Museo Luigi Pigorini di Roma.
Adesso ritorniamo a Tama che ricordiamo bambina, immersa nell’atmosfera del tempio giapponese, e ritroviamo donna, catapultata dal silenzioso e noto oriente al rumoroso e ignoto occidente, in una città come Palermo così diversa da Tokio, lontana dalla sua famiglia d’origine e parte di una nuova con usi e costumi che avrebbe dovuto fare suoi. A tal proposito esiste un ritratto, molto eloquente, in cui la pittrice ritrae il suocero, che aveva osteggiato con forza il loro rapporto d’arte e d’amore. Adesso, invece, come in un film, appaiono sulla scena i palermitani colpiti dall’unione tra questi due mondi, solo apparentemente, così diversi, e da quella donna dalla bellezza esotica, “altra” rispetto ai canoni dell’epoca, e proviamo a essere O’Tama, cercando di sentirne l’amore così forte per Vincenzo e il dolore dilaniante nel veder ritornare in Giappone la sorella e il cognato, l’unico legame che la ancorava alla sua terra e a quel mondo che non aveva rinnegato, ma da cui si era allontanata per andare dove la portava il cuore.
Per dimostrare a Vincenzo la sua totale dedizione decise di convertirsi al cattolicesimo, facendosi ribattezzare Eleonora per poterlo sposare e diventare, finalmente, la signora Ragusa. Per la scelta del suo nome “occidentale”, una ipotesi citava come ispiratrice la principessa Rosa Mastrogiovanni Tasca, moglie del principe di Scalea, in ricordo della figlia scomparsa e a testimonianza dell’affetto che nutriva per quella delicata giovane dai meravigliosi “occhi da orientale” che raccontavano una storia in divenire, insegnando pittura alle nobildonne, iniziando a ricevere importanti commissioni. La storica dell’arte Daniela Brignone, invece, porta una prova provata, un documento da lei trovato con una dichiarazione della pittrice stessa, in cui risulta che ad aiutarla in ciò sia stata la moglie di Damiani Almeyda.
Nel 1927, alla morte di Vincenzo, i quotidiani giapponesi, Osaka Mainichi Shinbun e Tokyo Nichinichi Shinbun, la scoprirono e, colpiti dalla sua storia, pubblicarono un romanzo a puntate su di lei, rendendola famosa nel Paese del Sol Levante. L’amore per la sua isola d’adozione, però, la fece restare in Sicilia per altri 6 anni, alla fine dei quali, su insistenza della sua famiglia d’origine e con una giovanissima pronipote andata a prenderla a Palermo, dopo ben 51 anni, Tama Kiyohara ritornò a Tokyo, parlando ormai, forse, meglio l’italiano e il siciliano, che il giapponese, e portando con sé i suoi dipinti e le opere del marito, molti dei quali, purtroppo, distrutti sotto i bombardamenti della II Guerra Mondiale, simbolo di quell’amore e di quella vita che aveva scelto, .
Le ultime volontà della pittrice, scomparsa a 79 anni, furono quelle di essere sepolta accanto a Vincenzo; ma fu soltanto nel 1985 che metà delle sue ceneri, le restanti si trovano nel tempio di famiglia Chōgen-ji, arrivarono a Palermo per ricongiungersi con quelle del suo amato uomo e riposare insieme sotto una colonna su cui si appoggia una colomba, opera dello stesso scultore.
O’Tama e l’arte
Fin qui la storia d’amore, ma O’Tama, con Vincenzo, visse d’arte e, infatti, pittrice raffinatissima seppe miscelare il tratto sognante del suo Paese alla cultura europea che prestava orecchio all’Impressionismo e al Vedutismo, veicolando in Sicilia e in Italia il Giapponismo, la passione per la cultura e l’arte nipponica. Il suo registro si rivelò essere quello di restare immersa nella sua tradizione facendola convivere con quella che era la sua essenza innovativa. A contatto con la cultura occidentale, inebriata di arte e storia, dal Tiepolo a Lojacono, dagli ultimi Impressionisti al Liberty, la produzione artistica di O’Tama subì una trasformazione, passando dal grafismo sintetico giapponese al naturalismo, lavorando anche come illustratrice reporter, sperimentando varie tecniche e soggetti. La grandezza di questa artista sta nella oggettiva rappresentazione del reale, rielaborata e miscelata, da pittrice ispirata e sensibile quale era, con il suo elegantissimo occhio da orientale, con i ricordi e la storia del suo Giappone.
Un libro molto interessante è “Liberty e Giapponismo. Arte a Palermo tra ‘800 e ‘900“ della storica dell’arte Daniela Brignone che, rivelando che il vero nome dell’artista era Tayo, mentre Tama, “sfera di cristallo lucente“, era il soprannome, esamina il movimento Liberty nei suoi rapporti con il Giapponismo, nato e cresciuto a Palermo, grazie ai coniugi Ragusa, quando, a fine ‘800 in Europa, erano ancora in pochi ad accostarsi con passione alla cultura e all’arte nipponiche. Di lì a pochi anni sarebbe fiorito il Japponisme in Francia e tale gusto in Sicilia avrebbe contagiato numerosi artisti come Ettore De Maria Bergler, Rocco Lentini e Salvatore Gregorietti. O’Tama e Vincenzo Ragusa, inoltre, parteciparono all’Esposizione Nazionale del 1891-92, frequentarono le famiglie più in vista di Palermo, come i già citati Tasca e i Whitaker, colpite da quella creatura, simbolo di una donna emancipata che assumeva impegni lavorativi e, pur essendo legatissima al marito, dimostrava un’autonoma determinazione nel proprio lavoro.
Mostre su O’Tama Kiyohara
O’Tama, Tama oppure Tayo, è stata ricordata in diverse mostre, tra queste, nel 2017, “O’Tama e Vincenzo Ragusa. Un ponte tra Tokyo e Palermo”, prima antologica a cura della professoressa Maria Antonietta Spadaro, storica dell’arte ed esperta di giapponismo, che, nell’ambito della Settimana delle Culture, ha avuto per palcoscenico Palazzo Sant’Elia, essendone promotrice la Fondazione omonima, in cui, attraverso 130 opere all’incirca, realizzate prima e durante il suo periodo palermitano, ha mostrato come la pittrice, curiosa per passione, abbia sposato varie tecniche: dalle opere da cavalletto, oli, acquerelli e pastelli, dipinti murali, a soggetti diversi, dal ritratto al paesaggio, dalle nature morte alle scene di genere, dai fiori agli animali, dai temi religiosi alle memorie d’atmosfere orientali, dall’arte applicata alle decorazioni d’interni, dai pannelli agli arredi e ai kimono.
Andando al presente, per chi volesse riscoprire questa grande artista, il Palazzo Reale di Palermo, dal 7 dicembre al 6 aprile 2020, ospita la mostra “O’TAMA. Migrazione di stili“ che, ideata dalla professoressa Maria Antonietta Spadaro e dalla Fondazione Federico II, che ne è promotrice, col patrocinio dell’Ambasciata del Giappone in Italia, prevede un percorso espositivo di 80 opere tra manufatti, cartoni e tessuti tra cui alcune pregiate carte similpelle (kinkava-gami) e 46 acquerelli. In mostra, anche, 9 ceramiche, 14 bronzi, 2 ventagli e, soprattutto, il prezioso kimono dipinto a mano, e ricamato con seta policroma e filo d’oro, che è stato collocato all’interno di una teca dedicata in Sala dei Vicerè. Non un’opera della pittrice, ma un pezzo pregiato acquistato in Giappone da Vincenzo Ragusa per la sua collezione. Questo kosode è tipico dello “stile della corte imperiale” (goshodoki) ed era utilizzato per i kimono indossati dalle donne di alto rango della classe samurai. Vincenzo Ragusa annotò nel suo inventario: “Veste per gran dama, sposa di qualche generale”.
Le opere di O’Tama e gli oggetti collezionati da Vincenzo Ragusa, conservati nel Museo del Liceo artistico, oggi, intitolato ai due coniugi, sono stati restaurati dal Centro di Restauro della Regione Siciliana. La foto della copertina, che vede O’Tama ed Eva Dea Mazzocchi nello studio palermitano dell’artista giapponese è tratta dal volume del 2019 “L’Utopia del Giappone in Occidente”, (Fondazione Federico II Editore), curato da Carmelo Bajamonte e dalla professoressa Spadaro, che ringraziamo per le tante tante chicche che ci ha regalato.
Curiosità
Nel 2016 il Comune di Palermo ha intitolato a O’Tama Kiyohara un giardinetto di via Praga.
Fabio Oliveri le ha dedicato il libro: “O Tama Kiyohara – Dal Sol Levante all’Isola del Sole” (casa editrice Krea).
Gianni Gebbia, grande sassofonista e improvvisatore siciliano, il film-documentario: “O’Tama Monogatari”.