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Echi di Giappone a Palermo. Le opere di O’Tama in mostra a Palazzo Sant’Elia

domenica 14 Maggio 2017

“Chiare cascate: tra le onde si infilano verdi gli aghi dei pini. Il tetto s’è bruciato, ora posso vedere la luna. Nobiltà di colui che non deduce dai lampi la vanità delle cose. Prendiamo il sentiero paludoso per arrivare alle nuvole. Accatastata per il fuoco, la fascina comincia a germogliare. Nello stagno antico si tuffa una rana: eco dell’acqua”.

Con questo haiku, la più famosa forma di poesia giapponese, vogliamo introdurvi ad un evento culturale che accoglie una delle pagine più importanti dell’arte siciliana.

Siamo a Palazzo Sant’Elia, a Palermo, dove – grazie alla Settimana delle Culture – fino al 28 luglio si potrà visitare la mostra “O’Tama e Vincenzo Ragusa. Un ponte tra Tokio e Palermo”, composta da circa centotrenta opere raccolte con perseveranza, dal 1996 fino ad oggi, dalla curatrice Maria Antonietta Spadaro.

O’Tama e Vincenzo Ragusa furono, a cavallo del XIX e del XX secolo, promotori nel capoluogo siciliano della corrente artistico-culturale del cosiddetto “giapponismo”.

Quando il Giappone aprì le sue frontiere verso l’Occidente, l’imperatore Mutsuhito ritenne necessario invitare dall’Italia, considerata la culla della tradizione artistica, tre artisti per fondare una scuola d’arte che reggesse il passo con le linee stilistiche della cultura figurativa moderna.

Nacque così a Tokyo la scuola d’arte “Kobu Bijutsu Gekko” del Ministero dell’industria e tecnologia; gli artisti selezionati dall’Accademia milanese di Brera furono Antonio Fontanesi per la pittura, Giovanni Vincenzo Cappelletti per l’architettura e il palermitano Vincenzo Ragusa per la scultura.

Quest’ultimo, al suo ritorno in Sicilia, portò con sé la giovanissima artista giapponese Kiyohara Tama, la sorella di lei, O’Chio, un’abile ricamatrice, e il marito, Einosuke Kiyohara, esperto nella laccatura di oggetti.

La pionieristica idea di Vincenzo Ragusa era quella di creare a Palermo un “Museo e una Scuola d’arti orientali”. Il progetto riuscì per metà, qualche anno dopo infatti Ragusa fu costretto a vendere gran parte degli oltre 4200 oggetti giapponesi che aveva portato con sé, e che furono acquistati dal Museo Luigi Pigorini di Roma.

La giovane O’Tama, questo il soprannome dell’artista giapponese, che significa “sfera di cristallo lucente”, venne a Palermo per amore di Vincenzo e, sempre per amore, si convertì al cristianesimo, lo sposò e cambiò il proprio nome in Eleonora Ragusa. Da quel momento le sue opere portarono questa nuova firma, talvolta unita agli ideogrammi giapponesi, a voler rappresentare la costante fusione di due visioni, occidentale e orientale.

Nell’Isola O’Tama si inebriò, è proprio il caso di dire, di arte e di storia: colori, tratti, stili, variabili artistiche la investirono, provocando in lei un processo di rielaborazione delle opere siciliane, che sfociò in una nuova produzione artistica, miscellanea di ricordi e culture.

Le opere di O’Tama in mostra, che siano acquerelli, pitture su diversi supporti (seta, tela, cartone, pannelli di legno), o schizzi fatti a matita sono costante rappresentazione di una curiosità viva, di un dinamismo mentale particolare, di una visione sincretica di realtà e immaginazione, sentimento e tecnica.

Semplicità, delicatezza di tratto, cromatismo mimetico nelle sfumature, ricercatezza del particolare e volontà di integrazione in un nuova realtà che sconosceva totalmente.

C’è tutto questo nell’arte di O’Tama ma c’è anche la testimonianza concreta dell’agire di una donna emancipata che, allora, sul finire dell’800, assumeva impegni di lavoro importanti e, pur essendo legatissima al marito, di un ventennio più anziano, dimostrava un’autonoma determinazione nell’appoggiarlo fino alla fine.

L’ultimo atto d’amore verso il marito O’Tama lo compì dopo la sua morte.

Prima di ritornare definitivamente a Tokyo, nel 1933, ella dipinse centinaia di fiori su tutte le pareti di quella casa che, per circa mezzo secolo, aveva contenuto il loro amore. Nel tempo O’Tama e Vincenzo Ragusa sono stati quasi dimenticati; sono in pochi, tra questi il musicista Gianni Gebbia con il suo film “O’Tama Monogatari (La storia di O’Tama), proiettato in loop all’interno della mostra, quelli che li hanno riportati alla ribalta.

Questa mostra, le installazioni al suo interno e i possibili eventi collaterali che da essa potranno nascere in collaborazione con l’Ambasciata Giapponese in Italia, è un primo, consistente, tentativo di colmare tale inspiegabile lacuna.

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