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L'esperienza di donne che risalgono il mare

Palermo, la testimonianza del viaggio con il gruppo “Iside”: su una barca per rinascere dalla violenza

domenica 27 Luglio 2025
Progetto "Iside"

Ci sono esperienze che non si raccontano con i numeri o sigle. Ci sono viaggi che si misurano nel silenzio che cade prima di una parola difficile, nei sorrisi che prendono il posto alla tristezza e la vergogna, nel coraggio che torna a battere sotto pelle.

Il gruppo “Iside”, portato avanti dal Centro antiviolenza Lia Pipitone di Palermo, è stato questo: un percorso di mutuo aiuto tra donne, segnato da incontri settimanali, condivisioni intime, e infine un gesto simbolico potente — una giornata in barca a vela, il 12 giugno 2025, nel mare aperto davanti alla costa palermitana.

Quella barca non è stata solo un’escursione, ma una metafora concreta di liberazione e sorellanza. Salire a bordo significava anche lasciare qualcosa a terra: un peso, una paura, una colpa che non era mai stata propria. A bordo c’erano donne che hanno vissuto violenza e oppressione, ma che oggi scelgono di raccontarsi.

A guidarle, insieme alle operatrici del centro, c’era la psicologa Azzurra Tramonti, che ha seguito passo dopo passo il gruppo, con delicatezza e tenacia.

Cinque donne, seguite dal Centro antiviolenza “Lia Pipitone”, hanno preso il largo in barca a vela il 12 giugno dal golfo di Palermo. È l’ultimo passo di un percorso di rinascita: un viaggio sul mare, per lasciarsi alle spalle la violenza e guardare al futuro con occhi nuovi.

La barca salpata dal pontile numero 4 “Salpancore”, proprio davanti alla Chiesa della Catena con le cinque donne hanno navigato nel golfo di Palermo a bordo del “Grand Soleil 45 AIDA 2”, condotte dal vento e dalla voglia di rinascere.

Di questa esperienza, ilSicilia.it. aveva già raccontato il giorno stesso, con un primo articolo, a tre giorni dall’ iniziativa.

Palermo, il vento in poppa di “Iside”: cinque donne salpano in barca a vela per ritrovare se stesse e riconquistare la libertà

Oggi torniamo su quella barca e il gruppo “Iside”, con uno sguardo più ampio.

Progetto “Iside”

In questo secondo articolo, raccogliamo due voci: quella della coordinatrice Azzurra Tramonti, che ci restituisce il senso profondo del gruppo “Iside”.

E quella di Alma: una delle cinque partecipanti al progetto e all’uscita in barca a vela, che ha scelto di condividere la sua esperienza, con parole che illuminano, liberano e restituiscono fiato e futuro.

Una testimonianza che non chiede giudizio, ma ascolto. Perché la violenza non finisce con una denuncia, e la libertà non comincia per decreto. Serve tempo, cura, e qualcuno che dica: “Non sei sola”. Come il percorso di rinascita personale di queste donne del progetto Iside hanno concretamente dimostrato.

“Grand Soleil 45 AIDA 2” ha rappresentato per loro molto più di un mezzo: è un simbolo, un rito di passaggio. Una linea immaginaria tra un prima e un dopo.

Un lungo cammino di un gruppo di mutuo aiuto iniziato a novembre 2024, un tempo scandito da incontri settimanali, confronti intensi, lacrime condivise, silenzi rotti e ricuciti. Donne che hanno subito abusi e maltrattamenti fisici e psicologici, e che si sono scelte come compagne di viaggio.

Un lavoro emotivo profondo, per ritrovare fiducia in se stesse, per riscoprire la propria voce, per riprendersi la dignità e, lentamente tracciare una nuova rotta verso l’autonomia.

 

LE INTERVISTE

 

La coordinatrice Azzurra Tramonti: “Per queste donne Iside ha significato ricreare relazioni, il senso dell’amicizia e del supporto reciproco.

 

L’esperienza in barca è la conclusione di un percorso di gruppo –  dichiara la coordinatrice del progetto Azzurra Tramonti, psicologa e psicoterapeutaLe donne avevano già seguito individualmente un cammino di fuoriuscita dalla violenza e, per motivi che non stiamo qui a precisare – forse legati a un momento di blocco, di stallo, di impasse o di una svolta diversa – si è deciso di metterle insieme per proseguire con un lavoro collettivo. L’obiettivo era lavorare su altri livelli di consapevolezza, sviluppare alcune competenze o – in molti casi – semplicemente prendere coscienza di averle. Molte di loro, infatti, hanno un’autostima molto bassa a seguito della relazione con il maltrattante, da cui escono psicologicamente distrutte. Il percorso di fuoriuscita le rimette in piedi, ma c’è un lavoro successivo, che noi in parte portiamo avanti al Centro Antiviolenza: un lavoro che non è di tipo psicoterapeutico, ma di supporto allo sviluppo delle risorse personali.”

“Puntiamo su ciò che sanno fare – aggiunge Tramonti – sul senso di empowerment, sul riprendere in mano la propria vita, sul potere di progettare, sognare, recuperare attività che facevano prima della relazione disfunzionale. Riscoprire gli hobby, le passioni, tornare a pensarsi come persone – prima ancora che madri o mogli – perché molte abbandonano tutto per dedicarsi solo a quella funzione, quella materna o coniugale.”

“Poi si prova a lavorare anche attraverso il rispecchiamentosottolineaognuna dà un feedback all’altra, ognuna può offrire un contributo: per esempio, mentre una racconta, un’altra può dire: ‘Guarda, io ho fatto così’, ‘Quella volta mi sono rivolta all’avvocato’, ‘Ho chiamato le forze dell’ordine’, ‘Sono andata al consultorio’. Si scambiano esperienze, punti di vista, mostrando che una soluzione esiste anche quando una donna non la vede, perché è bloccata dalla paura. Il confronto tra loro è fondamentale.”

“Abbiamo lavorato molto con la tecnica del brainstorming comunica ancora Tramonti – “partivo da un input – una parola chiave o una frase – e loro dovevano dire a raffica tutto quello che veniva in mente, senza ragionarci troppo. Uscivano fuori pensieri che potevano sembrare disconnessi, ma che avevano sempre un filo comune. Da lì nascevano altri racconti, altri ricordi, anche cose mai dette prima. È stata un’esperienza molto catartica. A volte lasciavo anche dei compiti: rispondere a una domanda chiave legata a un’area emotiva o a qualcosa che avevano smesso di fare per sé. O ancora: parlare a sé stesse come se stessero parlando a un’amica. Con la stessa cura, attenzione, gentilezza, compassione, indulgenza che avrebbero per un’amica che confida un problema.”

“La maggior parte di loro si colpevolizza, è molto dura con sé stessa. Non si perdonano la scelta di aver sposato quell’uomo, di averci messo troppo a lasciarlo, di non averlo denunciato prima. Si portano dietro molti sensi di colpa. Per questo abbiamo lavorato anche sull’esercizio della gentilezza e dell’auto-perdono. Abbiamo affrontato tantissimi livelli – evidenzia Tramonti – provando a sviluppare aspetti che nel percorso individuale non si riescono ad approfondire. Alcune di loro hanno chiesto anche di fare un lavoro più strutturato, di tipo psicoterapeutico, e le ho inviate al servizio dell’Asp, al centro vittime, che si occupa proprio di questo: del lavoro sul trauma.”

 “Nel frattempo, tra loro si sono creati dei rapporti personali – conclude Tramontihanno cominciato a vedersi anche fuori dal gruppo, e questo era uno degli obiettivi: costruire una rete amicale, sociale. Perché quando iniziano una relazione con il maltrattante, attorno a loro si crea terra bruciata. Una delle finalità del gruppo era proprio questa: ricreare relazioni, riscoprire il senso dell’amicizia e del supporto reciproco.”

 

Il racconto di Alma:  “Iside ha scavato nella mia anima. Mi ha rivelata a me stessa”.

 

Per dare voce a chi ha vissuto in prima persona questa esperienza, abbiamo intervistato Alma — nome di fantasia scelto per tutelarne l’identità — una delle cinque donne del Centro antiviolenza “Lia Pipitone” del gruppo “Iside” che ha partecipato all’uscita in barca. Il suo racconto è un frammento vivo di coraggio e rinascita.

 

Cosa pensavi quando ti è stato proposto questo percorso di gruppo e l’uscita in barca a vela?

Quando le è stato proposto di partecipare al percorso di gruppo e all’uscita in barca a vela, la sua reazione è stata di stupore ed entusiasmo. “Non avevo mai fatto nulla del genere – racconta – e già all’inizio mi sembrava qualcosa di grande. Ma poi, vivere l’esperienza insieme al gruppo ha superato ogni aspettativa: mi sono sentita a casa, accolta e capita”.

In quelle settimane, tra cerchi di parola e momenti condivisi, è nato qualcosa di profondo. “Ho trovato persone che parlavano la mia stessa lingua. Ho ricevuto solidarietà, inclusività. È come se, metaforicamente, mi avessero aiutata a prendere il volo”.

Il gruppo ha agito come uno specchio e uno spazio sicuro: “Mi ha dato consapevolezza. Credevo che certe cose potessero accadere solo ad altre donne, non alla mia età, non a me, per via delle convenzioni sociali da cui provengo. E invece ho capito che la violenza non guarda in faccia nessuno: può colpire chiunque, a prescindere da età, etnia, religione”. Guardando le altre, ha scoperto anche se stessa: “Ho capito quanto sono forte. Quanto sono intelligente”.

 

C’è un’immagine precisa che ti porterai dietro da quel 12 giugno in barca a vela? Cosa senti sia cambiato dentro di te dopo quell’esperienza?

Il 12 giugno, il mare ha fatto il resto. “C’è un’immagine che non scorderò mai – dice – vedere Palermo da lontano. Allontanarmi dai palazzi, dalla città. Quella distanza mi è rimasta impressa come qualcosa di simbolico”.

Al largo, è successo qualcosa dentro di lei: “Ho provato una sensazione nuova, come se per la prima volta stessi respirando davvero. Mi sono resa conto che non avevo mai vissuto esperienze così, e che ne ho bisogno. È stato trionfante. Mi sono sentita libera. Viva.”

E oggi? “Oggi sento che si è risvegliata la persona che ero sempre stata, ma che non avevo mai potuto essere. I miei figli dicono che sono diventata “più scaltra”. Forse perché ora non permetto più a nessuno di varcare i miei confini. So che il lavoro su me stessa sarà lungo, ma ora sono io. Finalmente io”.

 

 

Come descriveresti l’esperienza complessiva di “Iside”? Cosa ha significato per te questo percorso?

Quando le si chiede di riassumere cosa abbia rappresentato per lei il progetto Iside, la risposta è diretta: “Ha scavato nella mia anima. Mi ha rivelata a me stessa. Ho imparato a vivere, non più a sopravvivere. Per me ha significato salvezza”.

 

E se potesse parlare a un’altra donna che sta attraversando un momento buio?

“Le racconterei la mia storia, e la incoraggerei a provarci. Tutte noi meritiamo una seconda possibilità con la vita”.

 

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