Nel dibattito intorno al Reddito di Cittadinanza, particolarmente infuocato in questi giorni, prima o poi si finisce sempre per parlare (o sparlare) di loro. I Navigator, creati nel 2019 e subito identificati come simbolo di questa misura, indicati da più parti come esempio di un “fallimento annunciato”.
Antonio Lenzi, 42 anni, palermitano trapiantato a Milano, Navigator presso il Centro per l’Impiego di Rho, è il portavoce nazionale di A.N.N.A., l’associazione dei Navigator nata un anno fa con l’obiettivo di tutelarne il ruolo e la dignità professionale.
Da tempo i Navigator sono nel mirino dei detrattori del Reddito di Cittadinanza. “Inutili, “fallimentari”, “hanno trovato lavoro solo a se stessi” sono espressioni che frequentemente vengono associate alla vostra figura. Come stanno le cose?
Gli ultimi dati diffusi dall’Anpal – l’Agenzia nazionale delle Politiche attive del Lavoro – aggiornati a luglio 2021 attestano che circa un terzo dei beneficiari tenuti alla sottoscrizione del Patto per il Lavoro ha firmato almeno un contratto. Un dato che si può leggere in molti modi, ma che deve tenere conto di un elemento fondamentale: veniamo da un anno di durissima emergenza pandemica, in cui molte aziende hanno dovuto chiudere o comunque limitare la propria attività. Molti sembrano averlo dimenticato.
Attualmente siete circa 2.500 in Italia, di cui 400 in Sicilia. Qual è il profilo tipo del Navigator?
Siamo tutti laureati con un voto a partire da 107, molteplici esperienze lavorative precedenti, 35 anni come media d’età, per il 54% donne. Tra noi ci sono giuristi, psicologi, educatori, assistenti sociali, commercialisti, consulenti del lavoro e altre figure professionali.
Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Inps, la platea dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza è di circa 3 milioni e mezzo di cittadini, in larga parte concentrati al Sud e nelle isole. Quante tra queste persone sono entrate in contatto con voi?
Abbiamo accolto diverse centinaia di migliaia di percettori RdC. Un incontro non facile, che spesso abbiamo dovuto gestire a distanza per le limitazioni legate al Covid: costruire un rapporto con queste persone significa anzitutto superare una diffidenza di fondo, dovuta alla marginalità a cui sono costrette intere fasce di popolazione.
La principale accusa nei vostri confronti è che avete trovato pochi posti di lavoro. È davvero così?
Il nostro compito è ben più complesso del semplice incontro domanda/offerta. L’utente medio del Reddito di Cittadinanza ha la terza media, è assente dal mondo del lavoro da almeno 5 anni, conoscenze informatiche e linguistiche scarse o nulle. Per essere reinseriti questi soggetti hanno bisogno di politiche di inclusione, orientamento e formazione stimolando, in primis, la loro occupabilità. È un investimento per cui serve tempo, non bastano pochi mesi per portare avanti un processo di riqualificazione.
Cosa non sta funzionando nel Reddito di Cittadinanza e, più in generale, nelle politiche attive del lavoro in Italia? Avete proposte per migliorare un sistema che, a detta di tutti, va riformato?
I problemi sono molteplici. Vanno sciolti anzitutto i nodi riguardo la governance tra Anpal, il Ministero del Lavoro e soprattutto le Regioni, a cui competono i servizi sul territorio e in particolare i Centri per l’impiego. Manca un sistema unitario informatico: i sistemi regionali non dialogano tra loro e manca un’interfaccia con il sistema dell’INPS. Ancora, serve una forte connessione con il mondo della formazione, i centri d’istruzione per adulti e tutti gli altri attori nella rete dei servizi per il lavoro. Le proposte sono contenute in un report pubblicato recentemente dalla nostra associazione, già sottoposto al Comitato scientifico per la valutazione del Reddito di Cittadinanza voluto dal ministro Orlando e presieduto dalla professoressa Saraceno.
Il 31 dicembre scade il vostro contratto, già prorogato lo scorso aprile. Vedete un futuro per i Navigator?
Nell’immediato contiamo su una proroga per non disperdere il patrimonio di esperienze e di rapporti costruiti in questi anni con le imprese, gli enti di formazione e i beneficiari. In prospettiva, riteniamo che il nostro ruolo non possa essere valorizzato pienamente nei concorsi dei centri per l’impiego regionali, sia sotto il profilo professionale sia perché questo creerebbe disomogeneità profonde a livello territoriale. Deve essere trovata una soluzione unitaria e nazionale, che salvaguardi la nostra figura e voglia investire su una struttura capace di intervenire in supporto alle Regioni nell’erogazione dei LEP (livelli essenziali di prestazioni), così da superare le tante difficoltà attualmente presenti.