Qualche tempo fa, su iniziativa di due architetti palermitani, Giulia Argiroffi e Danilo Maniscalco, è stata lanciata la proposta di ricostruire Villa Deliella – il gioiello liberty progettato da Ernesto Basile – realizzata ai primi del ‘900 e abbattuta dalla furia speculatrice e mafiosa che imperversò agli inizi degli anni sessanta denominata “il sacco di Palermo”.
La proposta riscosse un certo successo e fu condivisa da un centinaio di personalità del mondo artistico, culturale e professionale e sostenuta perfino da un convegno in cui l’amministrazione comunale espresse, per voce del vice sindaco Emilio Arcuri, il suo consenso.
Non erano mancate anche alcune voci critiche che, nonostante il suo ripristino filologico, lo ritenevano sempre un falso storico, una sovrapposizione artificiosa, mentre per altri era un modo di lavarsi la coscienza da parte degli eredi ideali di una certa aristocrazia inetta e parassitaria e di una borghesia che per convenienza o per connivenza, e per una cultura di “amafiosità”, non mosse un dito per impedire ad una classe politica rappresentata da Giovanni Gioia, Salvo Lima e Vito Ciancimino di compiere quello scempio.
All’iniziativa, comunque, va attribuito, indubbiamente, il merito di avere risvegliato una memoria e una conoscenza storica per la vecchia e la nuova generazione di palermitani.
Tuttavia, non è vero come ha osservato la scrittrice Simonetta Agnello Hornb che tutti rimasero zitti. Vi fu un partito, il PCI e un politico, Pio La Torre che sulla vicenda scatenò una durissima battaglia dentro e fuori le istituzioni. Memorabile fu l’intervento di La Torre all’Assemblea regionale siciliana, interpretando un sentimento popolare che, a differenza dei ceti borghesi, riconosceva quel manufatto come un monumento da salvaguardare, forte del fatto di essere dalla parte della legalità. Infatti, il Ministero della Pubblica Istruzione e il Comune di Palermo nel Piano regolatore, proprio quello di Lima e Ciancimino, ne prevedevano il vincolo sia dell’edificio sia del giardino circostante. Come fu possibile, dunque, consumare quel misfatto?
L’inghippo nacque, nonostante i vincoli, perché in base ad una curiosa sentenza del Consiglio di Stato si sanciva che per far scattare il vincolo occorreva che fossero trascorsi cinquant’anni dalla sua edificazione e quindi nel novembre del 1959, essendo stata edificata nel 1909. Sfruttando questo cavillo il proprietario chiese immediatamente la licenza di demolizione: mancavano, infatti, pochi giorni all’entrata in vigore del vincolo, e con una rapidità eccezionale l’assessore Vito Ciancimino concesse la licenza lo stesso giorno. La notte stessa, come in un film, le ruspe entrarono in azione e decine di operai con pale e picconi compirono l’orrendo massacro. La mattina seguente la gente che passava da piazza Croci vide che si alzava ancora il fumo dei calcinacci e le piccole colline di detriti.
D’altronde i palermitani si erano abituati durante la notte al rumore di scoppi improvvisi o al divampare di incendi. Si trattava di piccole cariche di tritolo adoperate per distruggere alberi e giardini o abbattere intere costruzioni come accadde per villa Sperlinga, villa Florio alla Conigliera, al Girone delle Rose, le ville dei Colli e tante altre ricchezze e bellezze della città.
Per villa Deliella Vito Ciancimino, in occasione del processo intentato per diffamazione nei confronti del leader del PCI Girolamo Li Causi, dichiarò “ineccepibile l’operato del Comune”, anzi si vantò, con la solita beffarda arroganza, di non avere procurato alcun beneficio al proprietario avendo vincolato l’area a verde pubblico. Rimane il mistero di cosa avesse spinto il proprietario-principe a chiedere la licenza di demolizione. Pensava forse di trarre un profitto personale dalla conseguente speculazione edilizia? Era stato costretto, sotto intimidazione di gruppi politico- mafiosi, ad avviare quella procedura o egli stesso era in combutta con quegli ambienti?
E ancora, il vincolo a verde era frutto dalle proteste della sinistra e di un’indignazione, in verità molto limitata, che si era sollevata o c’era qualcos’altro?
L’unica magra consolazione che, infatti, rimase fu che nessun palazzone fu costruito in quell’area ma, in verità, neanche il verde previsto fu realizzato.
Oggi al suo posto vi sono un parcheggio e un lavaggio, a testimonianza di una ferita che rimane aperta nel cuore della città. Fra due anni, però, ricorre l’anniversario di quel misfatto: c’è tempo dunque per riaprire una discussione e una riflessione e soprattutto, impegnare il prossimo sindaco e il consiglio comunale a rimarginare quella ferita, in un momento in cui la città sta tentando di recuperare la sua identità.