E’ ormai da qualche tempo che l’anniversario dell’Autonomia siciliana si celebra in modo anonimo e rituale senza alcuna manifestazione d’interesse o sentimento popolare, come per fortuna ancora avviene per analoghe manifestazioni come la festa della Repubblica o il Venticinque Aprile.
E dire che l’Autonomia rimane una pietra miliare nella storia della Sicilia e del Paese.
Ricordiamo, infatti, come, insieme alla promulgazione dello Statuto, nasce in un momento drammatico, dopo la caduta del Fascismo e la fine della seconda guerra mondiale. E fu grazie alla lungimiranza e alla capacità politica della classedirigente di allora che non avvenne una mutilazione dell’unità nazionale, propugnato dal movimento separatista, forteanche di un vasto consenso popolare e, con atti di guerra civile, di un proprio esercito, l’Evis, formato anche da bande come quella di Salvatore Giuliano,e godendo anche d’importantiprotezioni internazionali.
Se la Sicilia non diventò come l’Ulster irlandese o una Vandea, da utilizzare in un disegno eversivo contro la nascente democrazia italiana, si deve all’intelligenza delle grandi forze politiche nazionali e al realismo dei gruppi dirigenti siciliani che con la conquista dell’Autonomia spensero le velleità separatiste e aprirono una speranza al futuro della Sicilia: De Gasperi, Togliatti, Nenni, Li Causi, La Loggia, Alessi, Mineocitarne solo alcuni.
Lo Statuto, infatti, viene sancito con Decreto Regio del 15 maggio 1946, dunque prima ancora che fosse stata eletta l’Assemblea Costituente,in presenza ancora della monarchia, che fu riconvocata dopo avere concluso i suoi lavori il 22 dicembre del 1947, in forza di una disposizione transitoria, per deliberare sugli istrutti speciali.Un passaggio molto importante, a dimostrazione del suo carattere, non di elargizione del potere centrale, ma di natura contrattuale e pattizia, un Foedus.
La Consulta regionale, istituita per l’elaborazione dello Statuto, vide confrontarsi diverse posizioni. In primo luogo quella della Democrazia Cristiana, espressa da Enrico La Loggia e quella del socialista Mario Mineo, che differenziandosi dal suo partito, in verità molto tiepido e diffidente sull’autonomia, elaborò un testo in alternativa a quello di La Loggia con una netta ispirazione federalista.
Posizione che in un primo tempo fu appoggiata dal partito comunista e che introduceva anche elementi innovativi volti a formare una classe di borghesia produttiva che la Sicilia non aveva mai avuto.
In seguito il Pci convenne, invece, sul testo della DC, cui riconosceva un retroterra autonomista più solido sul piano storico. Una grande operazione culturale, prima ancora che politica, grazie a Togliatti. che mosse una forza e un movimento profondamente legato a una visione statalista, centralista e con venature autoritarie verso una scelta di decentramento democratico eautonomista.
La convergenza tra DC e PCI si determinò sul concetto di “riparazionismo” nei confronti della Sicilia, sancito nel famoso articolo 38.
In sostanza la peculiarità dello Statuto si fondava sui trasferimenti finanziari dallo Stato alla Regine e su questi si puntava per innescare, a differenza del progetto di Mineo, uno sviluppo che inevitabilmente non poteva che dipendere dalla spesa pubblica, dal controllo politico delle risorse, con l’inevitabile subordinazione delle forze produttive, e la conseguente nascita del cosiddetto “ascarismo” e la subalternità della classe dirigente siciliana ai voleri del potere romano in cambio delle elargizioni di spesa pubblica.
Il “riparazionismo” di LaLoggia introduceva così una forte presenza di statalismo, che non poteva dispiacere ai comunisti, accantonando ogni posizione “liberale” che dava spazio al mercato, alla crescita, all’innovazione e alla competizione e che invece spingeva una borghesia nascente a cercarsi protezioni politiche per accaparrarsi porzioni di spesa pubblica.
Da questa storia occorrerebbe ripartire per affrontare un futuro che in verità si presenta incerto e non privo d’incognite per l’Autonomia e la Regione.
Qualche giorno fa Maurizio Scaglione si chiedeva polemicamente e con solide argomentazioni se cè ancora la Regione e dunque se serve ancora l’Autonomia.
Non vi èpiù la Regione che sognaronoi nostri padri costituenti e che doveva cambiare la Sicilia e come dicevaTogliatti “riparare i torti storici subiti dalla Sicilia nel corso dei secoli”.
Al suo posto vi è solo un carrozzone, uno stipendificio, funzionale a riprodurre un sistema parassitario, inutile e costoso.
Serve ancora la Regione? Sì, ma soltanto a determinati gruppi protetti politicamente e sindacalmente,ma non certo alla maggioranza dei siciliani, degli imprenditori e delle energie sane che ancora, nonostante tutto, esistono, e che la considerano estranea se non ostile ai propri bisogni e speranze.
Eppure, oggi più che mai la Sicilia ha bisogno di Autonomia, l’unica risorsa e strumento che le è rimasta per affrontare uno dei momenti più difficili della storia, stretta inoltre tra un ascarismo di ritorno e un ribellismo inconcludente.
Il contesto europeo, la globalizzazione, l’immigrazione, la qualità della disoccupazione e l’esodo di tante risorse umane sono sfide non semplici e che richiedono un cambiamento culturale innanzitutto e poi anche politico per costruire una nuova Autonomia, una nuova Regione e un nuovo Statuto.
Quello attuale è figlio del suo tempo, ha dato quello che poteva dare, con tutti i suoi limiti e gli svuotamenti perpetrati dal potere centrale nel silenzio e la complicità del potere regionale, dei suoi contenuti più innovativi.
Senza una nuova classe dirigente colta, autorevole e credibile che s’intesti questo progetto di cambiamento sarà difficile vincere queste nuove sfide e da cui dipenderà il nostro destino, se saremo una Regione periferica e marginale dell’Europa, dopo essere stati regione periferica e marginale dell’Italia.